Sebbene il concetto di neuropsicoterapia si possa far risalire già a Freud, si deve allo straordinario sviluppo delle neuroscienze, sperimentali e cliniche, il tentativo di congiungere la neurobiologia con la psicoterapia. Questa definizione, apparentemente semplice e di univoca interpretazione, nasconde, tuttavia, significati sostanzialmente diversi tra loro.
Un primo, più comune significato con cui viene usato il termine di neuropsicoterapia (1), si riferisce all’utilizzo, da parte dello psicoterapeuta , di scoperte (ad es. il sistema dei neuroni a specchio ), indagini diagnostiche e tecniche terapeutiche derivate dalle neuroscienze (ad es. la Risonanza Magnetica e l’EMDR). In questa accezione, la neuropsicoterapia cerca di conciliare conoscenze e applicazioni biologiche con conoscenze e strumenti di matrice psicologica ma questi contributi tendono più ad “affiancarsi” che realmente a integrarsi.
Un secondo significato di neuropsicoterapia, concettualizzato da Judd nel 1999 (2) si riferisce all’applicazione della psicoterapia, di differenti approcci, a pazienti con disturbi cognitivo-comportamentali secondari a danni cerebrali di diversa eziologia. In questo contesto, essendo la persona con patologie cerebrali spesso portatrice di deficit cognitivi oltre che di problemi emotivo-comportamentali, la neuropsicoterapia comprende, in molti casi, sia trattamenti di riabilitazione neuropsicologica sia psicoterapici. Tuttavia, nonostante questa combinazione di interventi, la conoscenza neuropsicologica degli effetti del danno cerebrale sulle funzioni cognitive e sul comportamento, in generale tende a rimanere distinta dalla conoscenza delle articolate dinamiche psicologiche del paziente.
A parte queste considerazioni, si deve segnalare come, fino a meno di venti anni fa, la riabilitazione cognitiva di pazienti con danni cerebrali fosse ritenuta l’unica possibile in questo tipo di pazienti, considerati refrattari alla psicoterapia. Lavori e studi di neuropsicoterapia su pazienti con danni cerebrali hanno invece dimostrato come la psicoterapia, insieme alla riabilitazione, possa migliorare le capacità funzionali del paziente, aiutarlo a superare i disturbi psicopatologici e motivarlo nel processo di accettazione e riadattamento al suo ambiente familiare e sociale (3)
Un terzo e innovativo significato di neuropsicoterapia si fonda su una modellizzazione gerarchico- sistemico- relazionale del Sistema Nervoso Centrale, basata sulla Teoria dei Sistemi Motivazionali (4, 5). Come è noto, l’architettura di questo modello è costituita da differenti livelli gerarchici strutturali –funzionali, emersi nel corso della evoluzione, nei quali sono inscritti sistemi motivazionali diversi che permettono una diversa relazione con l’ambiente, fisico, interpersonale, socioculturale (vedi tra i contributi speciali l’articolo di Maurizio Ceccarelli). In questa prospettiva, i pazienti con danni cerebrali consentono, attraverso la localizzazione anatomica della lesione in un determinato network neurale (ottenuta attraverso esami di neuroimaging), di effettuare una correlazione tra un determinato comportamento e il sottostante sistema motivazionale reso disfunzionale dalla lesione stessa (ad es. una lesione nelle aree limbiche può essere correlata a una disfunzione dei sistemi motivazionali della mente limbica, in un paziente che presenta disturbi comportamentali ricollegabili a un sistema agonistico disfunzionante). Ovviamente, questa correlazione non deve essere interpretata in senso localizzazionista, data la organizzazione gerarchica, integrata e dinamica dei diversi livelli funzionali . L’interpretazione localizzazionista delle funzioni mentali è stata, infatti, sostituita da una visione associazionista, secondo la quale una funzione dipende dalla attività integrata di regioni cerebrali distanti connesse da fascicoli, per cui è plausibile ritenere che una lesione a un certo livello neurale, produca una dis-integrazione tra questo livello e i livelli sovrastanti e sottostanti, cui consegue una riorganizzazione dell’intero sistema (6). Da questa riorganizzazione emergono nuovi assetti cognitivo comportamentali che possono essere disfunzionali e quindi richiedere un intervento psicoterapeutico. Nel caso di una compromissione delle abilità di autoriflessività e delle capacità relazionali del paziente, dipendenti dal suo livello disfunzionale (omeostatico, limbico, neocorticale), il terapeuta potrà scegliere le strategie psicoterapeutiche più adatte per potenziarle. In questa prospettiva, è possibile suddividere in maniera schematica il repertorio delle tecniche cognitivo-comportamentali in:
Tecniche comportamentali che agiscono sull’ambiente del caregiver: si tratta di interventi psicoeducativi sul caregiver in cui vengono discussi i comportamenti disfunzionali del paziente e consigliate tecniche ad esempio di estinzione e di rinforzo. Questi interventi sono spesso gli unici possibili quando il livello di disfunzione mentale e di relazione con l’ambiente del soggetto (con demenza avanzata, grave depressione, stato confusionale etc) non consente un intervento diretto né una relazione cooperativa che deve essere quindi creata con il caregiver.
Tecniche emozionali (di regolazione emozionale per incrementare l’autoriflessione, tecniche immaginative, rilassamento muscolare, mindfulnes etc) indicate per i soggetti con disregolazione emotiva secondaria a disfunzioni del livello limbico.
Tecniche comportamentali (automonitoraggio, biofeedback, modeling etc) possono essere impiegate in soggetti sia con elevato grado di autoriflessività sia anche in soggetti con basso grado di riflessività.
Tecniche cognitive (psicoeducazione, ristrutturazione cognitiva etc) sono possibili quando il paziente sia dotato di un sufficiente grado di consapevolezza e capacità autoriflessiva e quindi abbia un livello funzionale corticale adeguato tale da potere attuare una relazione terapeutica di tipo cooperativo.
Un contributo dettagliato sull’approccio e le procedure della neuropsicoterapia, in questa sua terza accezione, si può trovare nel caso clinico Un paziente inquieto in cerca di guai (I e II parte ) pubblicato nel Portale di Formazione in Neuropsicologia e Neuropsichiatria (neuropsicoclinic.com) a cui può accedere chi fosse interessato ad approfondire questo argomento.
In breve, il caso clinico riguarda un paziente, con un livello intellettivo nella norma, che in seguito a una lesione cerebrale acquisita fronto-temporale, sviluppa comportamenti impulsivi-aggressivi, causa di gravi problemi familiari e sociali. Nella patogenesi dei disturbi comportamentali del paziente, si incrociano elementi propri della sua storia personale (un attaccamento disorganizzato con attivazione disfunzionale del sistema agonistico) con gli effetti che la lesione cerebrale produce sui circuiti della emotività e della cognizione sociale. Il caso descrive l’analisi funzionale e i diversi interventi effettuati dalla psicoterapeuta, grazie ai quali il paziente riesce progressivamente a inibire la rabbia e l’impulsività, a non agire più irriflessivamente le dinamiche agonistiche regolate inizialmente solo dalla “mente limbica” e successivamente ad attivare processi cognitivi e metacognitivi regolati dai livelli neocorticali della attività mentale.
Questa terzo significato di intendere la neuropsicoterapia, rispetto ai due precedenti, tende quindi a superare la dicotomia tra componenti biologiche e componenti psicologiche del comportamento, concettualizzando la loro relazione come espressione di un continuum fisiopatologico, con i determinanti biologici a un estremo e quelli legati all’ambiente all’altro (6).
Numerosi pazienti con disturbi psicologici e comportamentali secondari a patologie cerebrali di varia eziologia (cerebrovascolare, neoplastica, traumatica etc.) , spesso incontrano difficoltà a trovare psicoterapeuti che li prendano in carico. Questa difficoltà deriva dalla “zona grigia” in cui questi pazienti si collocano: non ricadono nella competenza del neurologo in quanto hanno problemi psicopatologici né in quella dello psichiatra e dello psicologo perché hanno un danno cerebrale. Tuttavia, uno psicoterapeuta sarà in grado di trattare un paziente neuropsichiatrico senza difficoltà se al suo bagaglio di competenze psicoterapiche unisce conoscenze anche basiche di neuropsicologia e di neuropsichiatria, oppure se condivide il suo lavoro con un collega esperto in queste discipline. Al di la di queste competenze, pur necessarie, la neuropsicoterapia, intesa nel suo terzo significato, richiede però una visione unitaria sia del versante strutturale sia di quello funzionale del comportamento, entrambi e in egual misura essenziali per ricostruire il percorso eziopatogenetico alla base del disturbo cognitivo-comportamentale del paziente. La conoscenza di questo percorso eziopatogenetico inizia con la ricerca dei sistemi motivazionali che sostengono i pensieri, le emozioni, i comportamenti del paziente e prosegue poi con la definizione dei livelli neurali in cui questi sistemi sono inscritti e la cui disorganizzazione, alterando la relazione struttura-ambiente, determina i cambiamenti psicologici osservati nella persona . Disfunzioni neurologiche (a carico della attenzione, della memoria, delle funzioni esecutive etc), secondari alla alterazione di determinati livelli strutturali e oggetto della riabilitazione neuropsicologica, contribuiscono alla insorgenza dei disturbi psicopatologici.
Come scrive Ceccarelli nella parte finale del suo contributo, senza un approccio unitario e autenticamente biopsicosociale, i diversi dati della conoscenza della mente umana rimangono frammentari, come frammentari rischiano di rimanere anche gli interventi di cura. In questo senso la neuropsicoterapia , per la sua duplice finalità di cura neurologica e psicologica, stimola la riflessione sulle componenti patogenetiche biopsicosociali dei disturbi neuropsichiatrici che tra loro inestricabilmente si connettono ma senza per questo perdere la loro identità. Come viene spiegato nel caso clinico sopra menzionato, lo psicoterapeuta dovrà decifrare queste componenti e poi curare il suo paziente con interventi ugualmente biopsicosociali , neuroriabilitativi e psicoterapici, concettualmente, quindi, non separati ma sinergici. Infine, la neuropsicoterapia può offrire utili contributi alla conoscenza dei processi eziopatogenetici, anche questi biopsicosociali, nei pazienti senza danni cerebrali, guidando lo psicoterapeuta nella scelta di interventi terapeutici multidimensionali .
Carlo Blundo
Specialista in neuropsicologia e psichiatria
Direttore Master in Neuropsicologia – Università LUMSA
Docente Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Training School di Roma e di Jesi
BIBLIOGRAFIA:
1.Grawe K (2004) Neuropsychotherapie. Hogrefe, Go¨ttingen
2.Judd D. , Wilson S.L. Psychotherapy with brain injury survivors: an investigation of the challenges encountered by clinicians and their modifications to therapeutic practice. Brain Injury 2005 Jun;19(6): pp.437-449.
3.Klonoff P.S. , Psychoterapy after brain injury. Principles and techniques. The Guilford Press, 2010
4.Liotti G., Fassone G., Monticelli F., L’evoluzione delle Emozioni e dei Sistemi Motivazionali. Raffaello Cortina Editore, 2017.
5.Blundo C., Ceccarelli M.: L’organizzazione gerarchico-strutturale del sistema nervoso centrale: l’evoluzione della mente, in Blundo C. (a cura di) Neuroscienze cliniche del comportamento, Elsevier, 2011
6.Ceccarelli M.: L’organizzazione gerarchico-funzionale della mente: lo sviluppo dei processi mentali, in Blundo C. (a cura di) Neuroscienze cliniche del comportamento, Elsevier, 2011.
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