Film: LACCI, regia di Daniele Luchetti, 2020
(recensione di Massimo De Franceschi e Silvia Grassi)
LACCI…
CHE UNISCONO, MA CHE POSSONO ANCHE FAR SOFFOCARE.
Purtroppo, data l’attuale situazione sanitaria, non sarà più possibile vedere il bel film Lacci, di Daniele Luchetti, tratto dal romanzo di Domenico Starnone, nei cinema. Ma è il caso di prendere nota e di vederlo appena possibile sulle piattaforme dedicate o di richiederlo in prestito nelle biblioteche (quando si potrà), perché osservando gli attori sullo schermo si troveranno facilmente punti di contatto con la propria storia o con quella di persone a noi vicine. Lacci è un film che parla di vita, di come a volte la attraversiamo con la sensazione di essere trascinati da correnti invisibili alle quali non riusciamo a sottrarci e di come a volte la determiniamo con le nostre scelte o con le nostre mancate scelte.
Il film narra, con uno sviluppo temporale che avanza e poi torna indietro più volte e che obbliga lo spettatore a ricostruire gli eventi, a interpretarli e a reinterpretarli, il rapporto di coppia tra Aldo e Vanda, che vivono a Napoli insieme ai due figli. Lui è un giornalista che conduce una trasmissione radiofonica Rai a Roma, lei una moglie che si scoprirà poi come insegnante ma che all’inizio è tutta dedita alla famiglia.
La sera stessa di un ballo di gruppo, in occasione del Carnevale, e la visione di un documentario sulla fedeltà tra i (poligami) leoni, Aldo confessa alla moglie Vanda che è “stato con un’altra”: ecco il tema centrale del film. Ma non è l’ennesima rivisitazione dell’eterno triangolo lui, lei e l’altra, perché, tanto per dirne una, la figura più bella e la persona più equilibrata sembra essere proprio l’amante Lidia che, pur intuendo il desiderio di ritorno di Aldo in famiglia, lo lascerà libero di sperimentare l’importanza dei due legami tornando dalla moglie. Non si tratta, insomma, di una lettura semplicistica: marito traditore e colpevole, moglie vittima spezzata dal tradimento, amante egoista e insensibile che si intromette nel sacro vincolo matrimoniale.
Dobbiamo riconoscere che in tutte le vicende umane non arriveremo mai a una visione completa ed esaustiva del fenomeno; rimane sempre un quid di imprevedibilità e di sorpresa che spesso rimanda all’enorme e misterioso fenomeno della libertà umana. Interpretare i significati delle scelte filmiche del regista, i movimenti della macchina da presa (si dice ancora così?), la recitazione e molto altro sono qui tralasciati per una ovvia incompetenza di chi scrive: si intende invece proporre una (parziale e incompleta) lettura, attraverso le lenti che i SMI (Sistemi Motivazionali Interpersonali) possono offrire nel leggere la storia.
Quali sono i motivi che spingono all’infedeltà, per quali motivi un uomo o una donna cercano “lo sguardo di una persona nuova”, come cantava Gaber in una bella canzone? Nella visione popolare, e in quella di tanti terapeuti di coppia, i fattori che concorrono a spiegarne il motivo risiedono esclusivamente o in una difficoltà interazionale della coppia o in problematiche antiche (familiari) di uno dei due partner, tipicamente del traditore. Solo pochi e coraggiosi terapeuti ammettono che anche le persone felici possono tradire (come per esempio ipotizza il bellissimo libro della Perel, Così fan tutti. Ripensare l’infedeltà, Solferino 2018), e in questo caso è l’attuazione di modelli alternativi, originali e inesplorati, di sé a originare il fenomeno (il pensiero “scandaloso” e ansiogeno per tutti noi). Chi scrive pensa che i tre motivi siano, invece, sempre presenti, seppur in dosi variabili, nelle storie di infedeltà, così come nella vicenda narrata dal film in questione.
Chi volesse godersi il film senza sapere nulla della trama dovrebbe astenersi dal proseguire la lettura di questa recensione, perché i passaggi importanti saranno raccontati e interpretati.
Si può pensare che la rivelazione dell’avvenuto tradimento, e il conseguente il frantumarsi della famiglia, richiamato nelle immagini della brocca fatta cadere a terra e andata in mille pezzi, avvenga proprio quella sera perché la coppia aveva sperimentato poco prima una modalità di interazione diversa dalla solita: una cornice relazionale giocosa (ma il gioco è davvero un sistema motivazionale indipendente?). Il ballo di gruppo, che ha fatto sperimentare ai coniugi un modo di essere sopito e dimenticato, si conclude con uno sguardo tra i due che sembra denso di novità o di riscoperta. Nel ballo i ruoli, seppur diversi, sono complementari e sostanzialmente basati sulla cooperazione paritetica: vengono sospese, per esempio, le interazioni agonistiche. Per giocare e ballare bene si deve riconoscere l’altro come simile a sé… Il successivo documentario sui leoni, che sottolineava l’importanza del contatto fisico come via attraverso cui passa il legame, concorre a far credere ad Aldo che sia possibile un rilancio del proprio matrimonio e forse è per questo che decide per la rivelazione del tradimento e la speranza di un cambiamento relazionale possibile, più o meno consapevolmente agognato. Ma quale sarebbe la modalità usuale di rapporto della coppia? Forse il regista, nella scena immediatamente precedente alla visione del documentario, vuole anticiparla (poi la si vedrà meglio nel resto del film): mentre Aldo fa il bagno ai suoi due figli, in una situazione di accudimento intimo e sereno, irrompe bruscamente la moglie Vanda che sollecita l’interruzione della situazione e con fare sbrigativo ed efficientistico manifesta una certa insensibilità al calore delle relazioni in atto connotando subito i rapporti in termini di rango: chi decide e chi comanda, da un lato…chi esegue e chi ubbidisce, dall’altro.
La reazione della moglie alla rivelazione spiazza, ma inizialmente si accaparra la simpatia dello spettatore: non è appariscente, è sufficientemente composta, verso di lei va tutta la nostra comprensione. Però si osservano due note stonate: da una parte non appare “vitale” come ci si aspetterebbe, data la minaccia al legame; dall’altra sembra che non avrebbe voluto sapere, Vanda, della relazione, preferendo una vita matrimoniale basata sull’apparenza (Ma perché me lo hai detto?) invece che sulla verità. Lo caccia di casa, pentendosene subito dopo, ma quando guarda di nuovo dalla finestra, forse per riagganciare il marito, lui è già andato via. Sapremo poi che lui è andato direttamente a stare dall’amante.
L’impressione iniziale di una donna vittima composta ed equilibrata pian piano si perde, via via che si susseguono i tentativi della moglie per riavere il suo uomo: porta con sé i figli a Roma quando irrompe nello studio di registrazione del marito e solo la mano pietosa del fonico impedisce ai bambini di sentire quanto dice furiosa davanti al marito, ma loro vedono tutto. In un’altra scena i due bambini sono in auto quando lei si scaglia contro l’amante e il marito; disprezza apertamente il regalo che il marito fa alla figlia collegandolo esplicitamente all’amante… Li espone cioè a scene di violenza che si connotano come veri e propri maltrattamenti psicologici indiretti… e non sembra che tali momenti siano da interpretare come passaggi all’azione improvvisi ed estemporanei, ma come scelte strategiche consapevoli. Anche il suo tentativo di suicidio, che sembra essere una mossa estrema per forzare il marito al rientro in casa (l’altezza del piano da cui si butta, il fatto che sotto ci fossero degli oggetti attutenti e il suo riportare poche conseguenze), espone i figli a un trauma notevole… Del resto, quasi alla fine del film, dirà al marito che non le piace niente della sua vita, né il marito tornato, né se stessa e nemmeno i figli (Non mi piaci tu, non mi piaccio io, non mi piacciono nemmeno i miei figli), esprimendo in un raro momento di autenticità la vera motivazione fondamentale della sua vita, tutta giocata all’interno di una stessa modalità relazionale: quella agonistica. La figlia, da adulta, dal canto suo è consapevole della mancanza di affetto da parte della madre nei suoi confronti perché ricorda che da bambina avrebbe preferito andarsene con il padre e l’amante di lui…
Non è tanto l’interruzione del legame con Aldo, la ferita di attaccamento provocata, ma il bruciore di essere stata sconfitta da un’altra donna, battuta, sottomessa, lei che faceva del suo ruolo sovraordinato, del suo essere vincente, il perno della relazione (sarebbe stato interessante vedere uno spaccato sulla sessualità nella coppia o una visione di lei come insegnante): rivuole il suo uomo, ma solo per rivincita sull’amante.
Anche le motivazioni addotte al rientro di Aldo vertono esclusivamente sul concetto di patto coniugale e sui doveri che esso istituisce: mai parla di affetto, né tanto meno di amore… Una visione legalistica del vincolo matrimoniale, una visione stravolta secondo un’ottica del dovere, frutto di un potere superiore, di un’interpretazione onnipresente in termini di competizione… Ecco perché alcune recensioni, attribuendo la freddezza alle scelte filmiche del regista e non alla modalità relazionale in corso nella coppia di sposi, per noi sbagliano lettura…
Aldo, da parte sua, è un uomo che sembra avere un certo successo professionale, un lavoro stimolante nella Rai degli anni ottanta, ma poi scopriamo che non sa farsi valere, che è inibito nello sperimentarsi nel ruolo sovraordinato dell’interazione agonistica: non fa valere i propri diritti verso una giovane ragazza che lo truffa di pochi euro, lo vediamo sottomesso più volte alla moglie, soprattutto dopo il suo ritorno in famiglia, scopriremo che è stato ingiustamente estromesso dal suo programma radiofonico… E così, come un perdente, lo vede anche la moglie, che non manca di farglielo notare. Lui stesso lo riconosce apertamente in una scena finale del film, quando il loro appartamento è stato apparentemente devastato dai ladri. Aldo scappa da se stesso, dalla paura di dialogare con la parte più intima di sé (proprio lui, che per lavoro parla ed esprime le proprie opinioni in radio) e dalla paura di abbandonarsi a legami veri, autentici, profondi. E’, infatti, solo l’amante Lidia che gli propone una nuova modalità relazionale caratterizzata da una sessualità disinibita, giocosa e gioiosa, da una prospettiva di azione, di agency direbbero alcuni (E se finisse tutto? dice a lei. Noi cercheremo di non farlo accadere, gli risponde), svincolata dal ruolo sottomesso che lo caratterizza come persona e nell’interazione con Vanda. Ecco, forse, il “gioco” relazionale che Aldo con la sua rivelazione intendeva interrompere. E’ ancora Lidia, l’amante, una ventata di freschezza nella vita di Aldo, che proprio perché innamorata allenterà il laccio del loro rapporto (rischiando molto e alla fine perdendolo) e lo metterà di fronte al suo più grande limite (non dire niente neanche a se stesso per non osare cambiare), non per mortificarlo, come fa la moglie, ma per permettergli di salvarsi da questo suo lasciarsi trascinare da forze ripetitive e invisibili.
Ma a distanza di anni Aldo sente di nuovo l’attrazione verso… verso che cosa? Verso la famiglia? I figli? Vanda? Anche questo, sì, certo, ma forse sente maggiormente l’attrazione verso la modalità relazionale lasciata: il suo muoversi familiarmente nel sistema agonistico, seppure nella sofferenza del ruolo di subalterno. L’intimità e la passione sperimentati con Lidia lo soffocano più del legame sperimentato con Vanda: ecco i veri Lacci, ecco ciò che fa soffocare davvero. Non sono tanto i vincoli che instauriamo con gli altri o con le istituzioni, ma sono i vincoli con un nostro modo di fare e di essere automatico, procedurale, implicito, che ci legano impedendoci di sperimentarci in nuove modalità relazionali. Lo si vede bene anche in Vanda, nella scena della spiaggia, che a distanza di parecchi decenni dal ritorno del marito, ancora gioca come esclusiva modalità relazionale quella agonistica: giudica, svalorizza, afferma in modo perentorio, sottomette Aldo.
La relazione tra i coniugi, insomma, non entra in crisi a causa della comparsa della giovane amante, lo era già nell’immobilismo del rapporto che vedeva i due all’interno di una fissa relazione agonistica.
Ecco quella che per noi è la risposta alla questione centrale del film che pone Vanda (Perché sei tornato?): i veri Lacci sono quelli che ci fanno restare in una modalità relazionale sempre identica e che, quindi, diventa disfunzionale perché non coglie la poliedricità delle interazioni umane. E l’affermazione di Aldo, per restare insieme bisogna parlare poco, deve essere reinterpretata in modo relativo: per restare insieme secondo la stessa modalità disfunzionale relazionale si deve parlare (e sentire) poco.
Nella già citata scena della spiaggia, quando ormai sono anziani, i due coniugi di fatto continuano a vivere con la stessa modalità relazionale di sempre, anzi lei ha definitivamente vinto la competizione agonistica, lui è sconfitto a vita: sono stati per tutta la vita accanto (e non insieme).
Il regista introduce il tema della trasmissione tra le generazioni delle modalità relazionali, utilizzando l’efficace e metaforica scena dell’allacciamento delle stringhe al bar (Come ti allacci le scarpe? chiede la figlia al padre): in fondo ognuno i lacci se li allaccia da sé, guardando un modello. I figli, che da bambini sono innocenti e silenziose vittime tanto dell’indifferenza del padre quanto del rancore della madre nei confronti di lui e dell’amante, da adulti non appaiono per certi aspetti migliori dei genitori, dei quali ripropongono alcuni errori o meccanismi deleteri.
Ma è proprio dai figli e dal loro tentativo improvvisato di liberarsi da quella pesante eredità generando il caos nell’appartamento dei genitori, scambiato da Aldo e Vanda per un furto (della loro modalità ordinata, sempre uguale, ma assolutamente disfunzionale di rapporto), che può nascere una nota di speranza. E’ nell’appartamento messo a soqquadro che vediamo per la prima volta Vanda abbracciare il marito, in modo evidentemente goffo e rapido, in cerca di conforto. E’ da quel caos che marito e moglie riusciranno a buttare via cose vecchie e inutili che li tengono agganciati a un modo di fare familiare (nei due sensi di appreso in famiglia e di riconosciuto come proprio). E’ in quel caos che torneranno a galla le vecchie foto polaroid dell’amante di Aldo… accuratamente tenute nascoste per decenni (il film termina poco prima che queste vengano trovate, con la collaborazione di entrambi i coniugi, sotto un mobile) forse a ricordare ad Aldo che un’alternativa è possibile…. E’ da quel caos che la figlia si porterà via il gatto portasfortuna che, soprattutto la madre, accarezzava con tanto amore (come ognuno di noi nutre la propria disfunzionalità)… Ci sembra, quindi, di intravedere nel finale un messaggio di speranza: è possibile distruggere i lacci per poter ricominciare a costruire legami veri.
Ecco che nel film, come nella vita, una quota della spiegazione delle motivazioni del tradimento sono da ricercare nelle modalità interne di gestione relazionale della coppia, in carenze e disfunzionalità dei singoli prodotte da una storia familiare (che non conosciamo, ma che possiamo ipotizzare a partire dalla lettura trigenerazionale implicita nel film), ma anche nel tentativo di sperimentare nuovi ruoli, che è un esempio di quella motivazione così tipicamente umana che va dall’esplorazione dell’ambiente fisico alla ricerca di un senso per cui valga la pena vivere e morire.
Massimo De Franceschi, Psicologo Psicoterapeuta
Silvia Grassi, Logopedista
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