Recensione al capitolo sui Disturbi del Comportamento Alimentare,
del volume di Vittorio Guidano e Giovanni Liotti: Processi cognitivi e disregolazione emotiva, ApertaMenteWeb, Roma 2018
di Giovanni Castellini
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Uno dei miei maestri alla scuola di specializzazione diceva sempre che, quando ci troviamo di fronte a una buona idea di ricerca in psicopatologia, di sicuro troveremo uno psichiatra tedesco che l’ha già avuta nel secolo scorso. Questa battuta mi faceva riflettere sulla necessità di cercare sempre la prospettiva storica di un’idea, teoria o ipotesi di ricerca, prima di iniziare la nostra indagine empirica, analogamente a quanto accade nella ricostruzione delle radici di un comportamento patologico, prima di intraprendere un progetto di psicoterapia. Così come ormai diamo per scontato che le prime esperienze relazionali con i caregiver condizionino spesso inconsapevolmente le nostra intersoggettività, dovremmo sempre aver presente che l’attività di ricerca e la clinica poggiano le loro basi culturali sul lavoro di grandi autori che ci hanno preceduto.
Leggere il libro “Processi cognitivi e disregolazione emotiva” di Vittorio Guidano e Giovanni Liotti, ha scuramente il sapore della riscoperta (per qualcuno della scoperta) di queste basi. In particolare la lettura del capitolo sui Disturbi del Comportamento Alimentare, per chi si occupa di questa materia, fa respirare un misto di odori lontani nel tempo ma anche così vicini. Da un lato, sono pagine di archeologia con uso di termini riferiti a una nosografia superata (le anoressiche e le obese), dall’altro si rivela il profumo di grandi intuizioni che ormai fanno parte del nostro scontato bagaglio culturale e che permeano le pagine di questo capitolo con poche frasi di straordinaria chiarezza ed efficacia. Potremmo dire che molto di quanto scritto in questo testo oggi appare scontato; ed è questo forse l’aspetto più sorprendente, se si pensa che il libro fu scritto quando niente di ciò che oggi troviamo in un testo aggiornato sui disturbi dell’alimentazione era mai stato neanche pensato.
Questa commistione di essenze la si respira già dalle prime righe: si parla di anoressia nervosa primaria, atipica, obesità reattiva… preistoria rispetto alla galassia dei mille corpuscoli diagnostici nei quali è stato dissezionato il mondo delle persone con disturbi del comportamento alimentare, a opera del bisturi delle varie edizioni del manuale diagnostico e statistico per i disturbi mentali. Ma il sapore non è quello del vecchio, passato di moda; piuttosto, a parte la terminologia, sin dalle prime righe si respira l’aria dell’approccio trans-nosografico, dell’idea di un nucleo psicopatologico comune tra le varie forme diagnostiche, così come molti anni dopo Christopher Fairburn e gli altri esperti di terapia cognitivo-comportamentale dimostreranno empiricamente. Un mondo, quello dei disturbi dell’alimentazione, in cui ormai è assodato il transitare da una forma clinica all’altra nel tempo, la presenza di fattori eziologici comuni, e la necessità di individuare target dell’intervento comuni tra le varie espressioni fenomenologiche.
Chi conosce la letteratura in materia di disturbi del comportamento alimentare non può non stupirsi della gran quantità di suggestioni, sotto forma di rapide pennellate concentrate in poche pagine nella quali si possono scorgere indizi di interi filoni di ricerca che hanno preso forma nel corso degli anni a seguire. Ad esempio, vi sono accenni alla centralità del ruolo di dimensioni psicopatologiche, quali il perfezionismo, che molti autori e allievi di Guidano e Liotti hanno identificato come un tratto stabile, presente in tutte le diagnosi in modo trans-nosografico. Ma in pochi accenni di questo capitolo, gli autori segnano subito un confine ben definito e, purtroppo, da molti successivamente ignorato, in un magma indistinto in cui si confonde l’aspetto trans-nosografico con l’aspecifictà. Scrivono gli autori che il perfezionismo in questi disturbi “dipende da strutture cognitive completamente diverse da quelle di altri pazienti che possiedono standard elevati, come gli ossessivi e alcuni individui depressi”. Trans-nosografico non vuol dire generico, anzi, ogni forma psicopatologica ha la sua specificità, il suo insieme di significati personali, nei quali le dimensioni psicopatologiche come il perfezionismo assumono una precisa connotazione. E questo rappresenta sicuramente il miglior vaccino, per le nuove generazioni di esperti di salute mentale, allo spezzettamento e frazionamento nosografico che conduce a concetti distorti quali la comorbilità o i disturbi non altrimenti specificati, fino alle diagnosi particolari come il purging disorder (che potremmo definire con un po’ di ironia: “vomitare senza un perché”). Tutte fotografie a bassa risoluzione di fenomeni psicopatologici complessi, rappresentazioni istantanee che non tengono in conto del processo patoplastico, del perché in un certo momento della propria vita una giovane donna cambi il proprio rapporto con il cibo, che non ha più il significato originale di nutrizione, di piacere, di vita di relazione e gioco, ma si trasforma in un sintomo.
L’altra grande intuizione di questo capitolo, come di tutto il libro, a parer mio, è rappresentata dalla necessità di guardare oltre al sintomo alimentare in sé, oltre alla dieta o alla distorsione dell’immagine corporea e inquadrare la psicopatologia specifica in una cornice più ampia in cui si fondino i concetti di corporeità vissuta e di “strutture cognitive dell’identità personale”. In questa concettualizzazione che dal perfezionismo si muove verso il caso Ellen West, si nota un primo straordinario e primordiale sforzo di integrazione tra mondi che per anni hanno smesso di comunicare e contaminarsi, quello cognitivista (con il tema del disturbo dell’immagine corporea o del perfezionismo) e quello della fenomenologia di Binswanger, che connota il sintomo alimentare come elemento identitario, indispensabile per una definizione di sé e per prevenire un fallimento potenzialmente distruttivo. In questa sintesi, scorgiamo ripercussioni sconfinate per la terapia e la ricerca in ambito psicoterapeutico, la risposta a molteplici domande ma soprattutto la risposta a una domanda: perché le pazienti con disturbi dell’alimentazione “resistono così tenacemente al trattamento”? Perché rimangono attaccate al loro disturbo come se fosse uno scoglio in mezzo al mare in burrasca? Cosa sarebbero queste pazienti senza i sintomi che le hanno accompagnate per anni, senza il loro controllare la dieta, il misurarsi ostinato? Scrivono Guidano e Liotti: “tali pazienti mostravano dunque una sorta di “vuoto” all’interno della propria identità personale anche nei periodi di benessere precedente alle crisi e alla necessità di intraprendere un percorso di psicoterapia, come se “dentro” di loro non ci fosse nulla di definitivo a cui poter attribuire successi e fallimenti.”
Ed è proprio sulle implicazioni per il trattamento che la lettura del capitolo si rivela così appassionante e stimolante per chi si occupa di ricerca in questo ambito. Chi tratta e studia il trattamento dei pazienti con disturbi alimentari sa bene che la remissione sintomatologica o la variazione del peso corporeo rappresentano sì passi necessari, ma sono assolutamente non sufficienti. I numeri parlano da soli e dicono che una gran quantità di pazienti ricade o non raggiunge per anni una vera e propria remissione globale della sintomatologia. Quanto è frustrante per il giovane terapeuta non solo constatare questo fatto – pur avendo applicato alla lettera il protocollo – ma anche e soprattutto non riuscire a darsi alcuna spiegazione di ciò che avviene sul piano sintomatologico.
Guidano e Liotti mettono in guardia i terapeuti dal concentrare i propri sforzi esclusivamente sulla modifica del comportamento alimentare: “se le strutture cognitive che portano al comportamento alimentare patologico non vengono esplicitamente riconosciute, discusse e corrette, esse verranno modificate solo in parte nel contesto di apprendimento. Alla fine della terapia, il comportamento interpersonale dei pazienti rimarrà immutato.” Il concetto di organizzazione cognitiva che diventerà centrale nel mondo cognitivista, prende forma in questo libro e nel capitolo dei disturbi dell’alimentazione, come un costrutto di fondamentale importanza nella terapia; l’organizzazione cognitiva precede i sintomi, può permanere in seguito alla remissione e riemergere come una sorta di fiume carsico attraverso le varie manifestazioni psicopatologiche e spiega il senso individuale della ricaduta. “Qualunque sia la tattica adottata dal terapeuta per affrontare tali difficoltà – scrivono Guidano e Liotti – inoltre, essa dovrà essere coerente con una strategia più ampia, diretta a correggere stabilmente il comportamento alimentare patologico (“obiettivo di superficie”) o le strutture cognitive profonde, il che comporta una trasformazione dell’identità personale”. Poche frasi per rappresentare efficacemente il significato profondo dell’esperienza soggettiva di chi vive nel mondo dei disturbi alimentari: “Quando ho perso peso, mentre mi guardavo allo specchio pensavo che finalmente esistevo come persona”. Guidano e Liotti evidenziano l’importanza di riconoscere il significato personale come chiave di accesso alla comprensione del sintomo; questo è un concetto che Guidano svilupperà nel suo testo “Il sé nel suo divenire”. Nelle pazienti anoressiche, il comportamento alimentare patologico diventa una sorta di coping al quale aggrapparsi per superare l’angoscia per la sensazione di “quasi inesistenza” o di difficoltà a sviluppare un’identità personale autonoma in un contesto familiare che spesso è rappresentato come “minaccioso”.
Nel rileggere queste pagine si può provare anche una certa malinconia di un passato che sembra essere stato in parte dimenticato se si guarda a una ricerca che va per la maggiore nei congressi internazionali, in cui il biglietto di ingresso spesso è il dato biologico, scisso dalla psicopatologia o il trial clinico disegnato sul modello della sperimentazione farmacologica. Ricordo quando, durante una lezione, Liotti scherzò sui trial che adottavano i disturbi di personalità tra i criteri di esclusione: “non capisco chi ci mettono dentro allora in questi studi” disse ridendo. Il libro dalla dedica iniziale (“a John Bowlby”), fino all’appendice, poggia le sue basi sull’integrazione dell’approccio cognitivista con la teoria psicoanalitica classica e con la nuova (per l’epoca) Teoria dell’Attaccamento, nel tentativo di far risalire le cause del comportamento patologico alle fasi dello sviluppo individuale. La melanconia nasce dal constatare che purtroppo oggi, in tanta ricerca, si sono perse l’energia e la cultura per sostenere questo sforzo di integrazione, appiattendo e rendendo superficiale il livello di analisi, fino a depurare quasi completamente i protocolli di intervento da ogni riferimento alla storia evolutiva del disturbo. Quindi, una sorta di amnesia collettiva della coscienza e delle origini.
Ma sicuramente, un’amnesia che non ha contagiato tutti, e anzi giovani ricercatori che hanno nel DNA gli insegnamenti di questi due maestri in modo più o meno consapevole si muovono sulle loro orme anche nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione, tentando un’integrazione tra le nuove ipotesi neurobiologiche e il tema, tanto caro a Liotti, degli sviluppi traumatici, un altro fiume carsico che scorre dalle prime esperienze interpersonali fino a prendere nell’età adulta la forma di gravi bulimie multi-impulsive.
Per quanto mi riguarda ho provato una grande sorpresa nel trovare “seppellito” tra le righe di questo capitolo un tema centrale nella mia attività di ricerca, quello del rapporto con la sessualità nei disturbi dell’alimentazione. Dico “seppellito” perché per anni quasi nessuno si è occupato di questo argomento che per me era nuovo. Ho dovuto constatare che più che nuovo era semplicemente dimenticato. Guidano e Liotti lo avevano affrontato in questo testo, tracciando in poche parole la strada per future ricerche e intuendo quanto l’analisi della sessualità delle pazienti con disturbi dell’alimentazione potesse essere una fonte di informazione preziosa sul nucleo psicopatologico e sulla traiettoria patoplastica delle pazienti. Scrivono Guidano e Liotti: “siamo convinti che la sfiducia di queste pazienti rispetto al fatto che gli altri siano intenzionati a capirle e accettarle giochi un ruolo importante nell’indifferenza per il sesso e nell’incapacità di raggiungere l’orgasmo, così comune a molte di loro. I rapporti sessuali e l’orgasmo, infatti, comportano un’intimità nella comunicazione, nonchè la possibilità di mostrare liberamente le proprie emozioni al partner, cosa assolutamente incompatibile con la struttura cognitive che caratterizza obesità e anoressia”. In poche righe si condensa l’intuizione del legame tra la dimensione interpersonale e la corporeità vissuta anche attraverso la sessualità.
Grandi intuizioni, che due ricercatori italiani avevano già avuto prima che molti di noi nascessero e che per certi versi ci sono entrate dentro senza che ne fossimo del tutto consapevoli. Leggere questo capitolo e questo libro ci rende consapevoli e ci dice da dove vengono molte delle nostre idee.
Giovanni Castellini
Professore Associato di Psichiatria, Università degli Studi di Firenze
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