COVID-19: le conseguenze dell’isolamento degli anziani e possibili interventi (di Eleonora PIETROPAOLI)

La diffusione del COVID-19 ha obbligato diversi paesi ad attivare provvedimenti per la tutela della popolazione che includono la restrizioni dei contatti interpersonali e l’isolamento sociale.

Se da una parte questi accorgimenti sono stati finalizzati a salvaguardare i sistemi sanitari ormai sovraccarichi e proteggere dal contagio i soggetti più a rischio come gli anziani, è anche vero che la separazione dai familiari e dalla rete di relazioni informali può comportare conseguenze preoccupanti per la popolazione della terza età.

Negli studi sul fenomeno dell’invecchiamento, infatti, si sottolinea il ruolo fondamentale dei contatti sociali nel contribuire alla qualità della vita dell’anziano, non solo in termini di mantenimento di uno stile attivo, dinamico e indipendente, quanto anche nel rispondere ai bisogni di protezione, sicurezza e appartenenza che si intensificano in età avanzata. Il ritiro sociale e l’esclusione dalle relazioni familiari, da quelle informali costituite dalle amicizie e dalla rete di vicinato, può dunque minare il senso di sicurezza e la salute degli anziani.

Armitage e  Nellums (2020), hanno pubblicato su The Lancet una breve rassegna delle ricerche che osservano gli esiti dell’isolamento sugli anziani sia dal punto di vista medico sia da quello psicologico.

Fra i vari studi viene citato il lavoro di Gerst-Emerson K. e Jayawardhana J. (2015) che rileva quanto la separazione dalle relazioni possa essere considerata una condizione preoccupante per la salute pubblica a causa dell’aumento del rischio di problemi cardiovascolari, autoimmuni, neurocognitivi e di salute mentale.

Sulla stessa linea Pantell, Rehkopf  et al. (2013) hanno osservato come l’isolamento sociale sia un fattore predittivo di mortalità alla pari di fumo, obesità, pressione arteriosa elevata e colesterolo alto.

Altri lavori riscontrano disturbi del sonno (Kurina et. al. 2011) e rischio di demenza (Holwerda et. al.,2014). In quest’ultimo caso, lo studio ha riguardato un campione di 2173 anziani non dementi, alloggiati in comunità o in cliniche residenziali. A distanza di tre anni, coloro che avevano riferito sentimenti di solitudine presentavano una maggiore incidenza di decadimento cognitivo, disorientamento e demenza.

Dal punto di vista psicologico, Santini e colleghi (2020) hanno dimostrato come la separazione dalle relazioni metta gli adulti più anziani a maggior rischio di depressione e ansia, amplificando il grado di disturbi affettivi già correlati all’avanzamento dell’età. I dati sembrerebbero indicare un andamento di reciproco rinforzo tra disturbi affettivi e isolamento. I disturbi affettivi associati all’anzianità, infatti, possono innescare a lungo termine comportamenti di ritiro sociale, schemi di pensiero autoreferenziali disfunzionali e peggioramento dei sintomi psichiatrici. Questi esiti, a loro volta, tenderebbero ad alimentare e aggravare i disturbi affettivi e l’ansia pre-esistenti.

In uno studio condotto da Santaera et al. (2017) mirato a indagare la relazione tra sostegno sociale, solitudine e depressione negli anziani, si è evidenziato come la depressione sia strettamente correlata a vissuti soggettivi di solitudine in corrispondenza della riduzione delle interazioni e del supporto sociale. In sostanza, coloro che avvertono un buon sostegno sociale (inteso come senso di vicinanza emotiva/psicologica) mostrano bassi livelli di solitudine auto-percepita e manifestano minor rischio di depressione. Al contrario, gli anziani che soffrono della mancanza di relazioni significative di sostegno sembrerebbero più inclini a presentare vissuti di solitudine e  a sviluppare sindromi depressive.

Negli ultimi anni, quella particolare area di studi  che fa ricorso alle tecniche di neuroimaging ha invece indagato il rapporto tra solitudine e reattività/ allerta alla minaccia sociale. Sentirsi soli non aumenta solo il desiderio esplicito di connettersi o riavvicinarsi agli altri, ma produce anche un’ipervigilanza implicita per le minacce sociali (Cacioppo e Hawkley 2009; Cacioppo, Weiss, et al. 2014).

La scoperta che la solitudine è associata a un aumento dell’attenzione riguardante segnali sociali negativi rispecchia i recenti risultati di studi comportamentali (Bangee et al. 2014; Egidi, Shintel et al. 2008 ) e eye-track research, in cui le persone sole hanno mostrato maggiore attenzione visiva alle minacce sociali legate al rifiuto, all’esclusione da parte di membri della comunità (es. un bambino respinto dai coetanei), rispetto a stimolazioni aventi come oggetto contenuti non sociali ma di natura biologica (es. immagini di serpenti) (Bangee, Harris, et al. 2014; Qualter et al. 2013 ). Nel loro insieme, le ricerche comportamentali e di neuroimaging suggeriscono come le persone che si percepiscono sole, a differenza dei soggetti che non riferiscono sentimenti di solitudine, mostrino distorsioni automatiche dell’attenzione per le minacce sociali come ad esempio il rifiuto rilevato dal coinvolgimento precoce delle aree cerebrali coinvolte nell’attenzione e nella rappresentazione di sé (Cacioppo, Bangee et al. 2015).

Benché questo ambito di ricerca non riguardi esplicitamente la popolazione della terza età, è pur vero che è proprio questa porzione di persone a soffrire maggiormente di isolamento e solitudine. Motivo per cui, a mio parere, i risultati sull’ ipervigilanza alle minacce sociali potrebbero aprire interessanti spunti di riflessione sul ruolo che le distorsioni automatiche dell’attenzione per l’esclusione possono assumere nel mantenimento del ritiro,  e quindi anche nel  trattamento  degli  anziani isolati. Questi studi  potrebbero essere anche fonte di stimolo per ragionare su che cosa ci si aspetta possa avvenire al termine della quarantena e alle difficoltà che gli anziani potrebbero sperimentare nel riavvicinarsi alle persone, tenendo presente un prevedibile rischio di rifiuto e stigmatizzazione nei confronti degli individui riconosciuti positivi al COVID-19.

L’ISOLAMENTO AL TEMPO DEL CORONAVIRUS: quali differenze e come intervenire?

L’emergenza determinata dal rischio di contagio da  COVID-19 difatti  sta destrutturando la quotidianità e tutti  quegli aspetti che nella nostra vita sono stati fonte di certezza.

L’isolamento derivato dalle restrizioni imposte alla libertà individuale e alle relazioni interpersonali, non è l’esito lento e graduale della riduzione del mondo relazionale degli anziani, ma nasce da una repentina esigenza di tutelare la popolazione dal pericolo di contagio e da morte per epidemia.

Da risorsa e sostegno per il benessere della terza età, il contatto sociale  diviene, al contrario, un fattore di rischio. Il ritiro funge da “rifugio” nel quale proteggersi dall’esterno ormai minaccioso, ma anche un rifugio che può tramutarsi in una gabbia che cela noia e solitudine.

L’instabilità che ne deriva, e l’incertezza nella durata dello stato di emergenza, hanno creato un clima di forte stress per tutta la popolazione all’interno del quale si riscontrano risposte di paura, attivazione e allarme che necessitano di interventi mirati e rapidi. Essendo questa una circostanza per lo più nuova, le informazioni scientifiche più attendibili ci provengono dagli studi sugli esiti della quarantena a seguito di epidemie quali Ebola e SARS. I risultati hanno evidenziato disturbi acuti da stress, sintomi da stress post-traumatico e una maggior propensione a vivere stati d’ansia e di insonnia, anche nei giorni immediatamente successivi alla fine dell’isolamento (Bai et al. 2004; Brooks, Webster et al., 2020). Si ipotizza infatti che molti dei disturbi psicologici potrebbero insorgere a distanza di tempo e con livelli di intensità variabili a seconda anche della compresenza di complicazioni socio economiche derivate dal crollo dell’economia. Pur non differenziando i singoli in base allo stato di salute di partenza, i ricercatori hanno osservato come disturbi quali l’ansia, la depressione, l’irritabilità e il disturbo post-traumatico da stress possano durare anche per mesi, dopo la fine della quarantena. Assieme a queste risposte comuni a tutte le fasce di età, i soggetti in età più avanzata o che presentino deterioramento cognitivo possono diventare arrabbiati, agitati o eccessivamente sospettosi durante la quarantena.

In questo contesto specifico, l’isolamento esula quindi dal suo significato comune  per assumere la forma di ritiro forzato o quarantena:.

  • La restrizione dai contatti sociali si inserisce in un contesto di paura, di terrore e di colpa per essere potenzialmente vittima o causa della trasmissione del virus.
  • Più del ritiro volontario, l’obbligo a rimanere a casa può attivare vissuti di solitudine, poiché tende ad aumentare il disagio basato sulla discrepanza soggettiva tra la situazione sociale effettiva e quella desiderata (Käll, Jägholm et al.  2020)
  • Il riconoscimento degli anziani come popolazione a maggior rischio e l’impossibilità di accedere alle risorse familiari o amicali aggrava ancora di più il senso di vulnerabilità auto-percepita
  • Oltre ad ansia e depressione, la paura di morire può sfociare in panico, ipocondria e impotenza.
  • Lo stato di salute degli anziani e la restrizione dai contatti sociali è fonte di forte preoccupazione anche per i loro familiari e i caregiver. A causa dell’impossibilità di fornire aiuto e assistenza ai propri cari, i parenti potrebbero sviluppare ansia generalizzata e senso di impotenza in un circolo che perpetua a cascata problematiche psicologiche.

LE NUOVE TECNOLOGIE PER CONTRASTARE L’ISOLAMENTO DA CORONA VIRUS NELLA TERZA ETA’:  da nemiche ad alleate contro la distanza sociale

Sebbene molti di noi non siano necessariamente grandi fautori delle nuove tecnologie e prediligano l’interazione  “vis a vis”, ritengo che in questa fase di emergenza, dove proprio il fondamento della vicinanza relazionale sia proibitivo, i trattamenti terapeutici e i contatti informali online, come anche le telefonate e gli sms da cellulare, possano essere adottati dagli enti locali e dai familiari stessi per fornire reti di sostegno sociale e un senso di appartenenza, oltre che dai professionisti della salute mentale, per contenere e regolare stati ansiosi e depressivi, impotenza, allarme o panico.

Cosa possono fare le persone per stare meglio e far star meglio gli anziani in quarantena?

Comunicare, condividere emozioni, pensieri e azioni, come anche parti della vita quotidiana, e ascoltare sono i “must” di questo momento per non far sentire davvero soli i nostri anziani.

Alla comprensione e all’ascolto vanno affiancati argomenti che consentano di “staccare la spina” e di fare piccoli progetti per guardare al futuro con un minimo di progettualità.

Un uso intelligente della nuova tecnologia può mitigare la distanza fisica imposta dalla quarantena se si mantengono  contatti con le persone.

Gli scambi con amici e familiari possono passare attraverso messaggi frequenti, anche se sarebbe più efficace sostituire questi ultimi con telefonate o meglio ancora con videochiamate:

  • La chat video riduce il rischio di depressione: uno studio a cui hanno partecipato più di 1400 soggetti ha mostrato come tra gli anziani , l’uso di chat video indicasse circa la metà delle probabilità di sviluppare sintomi di depressione anche a distanza di anni (Teo, Markwardt et al. 2019)
  • Le chiamate video user-friendly migliorano la funzionalità del cervello: le conversazioni video giornaliere, a differenza delle comunicazioni non-video,  mostrano un miglioramento nei test delle funzioni esecutive basate sul linguaggio (Dodge, Zhu et al 2015).

I più tecnologici potrebbero organizzare  conference call  oltre che per motivi di lavoro anche per comunicare con amici e parenti, potrebbero inoltre fornire ai familiari meno esperti cellulari o tablet e avviarli all’uso delle nuove chat e dei social network.

Utilizzare questi mezzi in collaborazione con gli istituti di degenza come le RSA potrebbe essere fondamentale per tutte quelle famiglie che non potendo raggiungere gli anziani ricoverati avrebbero l’opportunità di vedere i propri cari con beneficio di tutti.

Il sostegno e la terapia online per sostenere l’anziano in isolamento

Siamo difronte a un’emergenza sanitaria senza precedenti, con gravi risvolti sociali e psicologici.

Le nuove tecnologie, dai telefoni cellulari con l’uso di Whatsapp alle piattaforme video come Skype possono aiutare a limitare i danni che insorgono dalle limitazione dei contatti relazionali, garantendo il mantenimento di supporti psicologici già avviati o l’opportunità di attivarne di nuovi in caso di necessità.

L’ intervento psicologico professionale può aiutare gli anziani a contenere, gestire e tollerare al meglio questo momento di solitudine e allo stesso tempo  agire per  limitare al massimo la comorbilità fra COVID-19 e disturbi psichiatrici.

Come si può intervenire?

Se quindi l’isolamento favorisce l’insorgenza di ansia e depressione, deterioramento cognitivo e patologie mediche, è anche vero che in una fase dove la restrizione dei contatti diviene soprattutto per gli anziani un fattore protettivo dal contagio da COVID-19, gli interventi psicologici mirati alla risoluzione dei disturbi dell’umore e all’ansia, come anche quelli rivolti a favorire la ricostruzione di una rete sociale soddisfacente, dovranno inevitabilmente rimodularsi e riadattarsi alle esigenze attuali per includere interventi specifici collegati allo stato di emergenza che caratterizza questo periodo storico.

In un’ottica per cui  ogni forma di terapia realmente finalizzata al benessere delle persone ha la necessità di adattarsi alla vita e all’insorgenza di variabili imprevedibili, sempre più studi di ricerca confermano l’efficacia di trattamenti psicoterapeutici sugli anziani erogati tramite le nuove tecnologie.

In questo ambito ad esempio la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) basata sul Internet per la solitudine ha mostrato esiti promettenti fra coloro che ricevevano un trattamento online rispetto a un’assenza di trattamento (Käll , Jägholm  et al. 2019).

Altrettanti interventi basati sul modello cognitivo comportamentale possono essere adoperati per agire sull’ ansia e sulla  depressione derivate dall’isolamento.

Premettendo quindi che è particolarmente importante non confondere la vita da soli, l’essere isolati e il sentirsi soli, perché ogni condizione richiede una particolare forma di diagnosi e un intervento specifico, le ricerche evidence based (Stanley 2003) hanno portato dati a favore dell’efficacia CBT nell’anziano anche  nella gestione di sintomi psicologici quali depressione ed ansia, spesso concomitanti alla condizione di quarantena.

La sintomatologia traumatica o post traumatica, a maggior ragione per quegli anziani che si siano ammalati o abbiano visto ammalarsi i propri cari, può invece beneficiare dei trattamenti EMDR  e Trauma-Focused Cognitive Behavioral Therapy (TF-CBT), fra i più efficaci nell’affrontare ad esempio catastrofi naturali ed esperienze traumatiche multiple.

Lavorare sul qui e ora, aiutare a sviluppare la resilienza individuale e sostenere gli anziani a regolare le risposte emotive all’interno della propria finestra di tolleranza stabilizzando ansia e paura a un livello funzionale, potrebbe avere la  precedenza nel trattamento, a maggior ragione per quegli anziani che più di altri, sviluppano risposte di allarme o sintomatologia post traumatica, durante la fase di isolamento o al termine della quarantena.

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Eleonora Pietropaoli
Psicologa, Psicoterapeuta SITCC e EMDR, Centro Clinico de Sanctis Rom

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