Clara Mucci: Corpi Borderline. Regolazione affettiva e clinica dei disturbi di personalità. Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp 407, Euro 38.
Il testo di Clara Mucci è un testo fondamentale per gli studiosi e per i clinici che si occupano delle patologie della personalità: si tratta di un notevole e rigoroso tentativo di integrazione di più punti di vista sulla materia. L’autrice, partendo dalla concettualizzazione del massimo esperto in materia, Otto Kernberg, passando dalla imprescindibilità della dimensione relazionale dell’esperienza psicopatologica e dell’esperienza di cura (il terapeuta benevole e soccorevole di Ferenczi e la teoria dell’attaccamento costruiscono una psicologia e una psicoterapia bipersonale e non più esclusivamente intrapsichica), dalle più recenti acquisizioni della neurobiologia interpersonale (si vedano i continui riferimenti a Schore e a Porges e alla sua Teoria polivagale), dalle più moderne concettualizzazioni del trauma (esplicito il superamento del trauma fantasmatico freudiano in favore di una dimensione reale del trauma) e delle relative difese (la dissociazione come forma di difesa principale in opposizione alla centralità freudiana della rimozione) arriva, infine, ad una rivoluzionaria, quanto trasversale ai diversi orientamenti, riconcettualizzazione dell’inconscio (il cui campo si estende al di là del rimosso per abbracciare la dimensione non-verbale e incarnata dell’esperienza).
È da questo modello integrato che l’autrice, nonostante i corposi riferimenti alla neurobiologia interpersonale, accantona l’errore di Cartesio. Penso, dunque sono: non proprio, sembra suggerire Clara Mucci. Meglio: posso, dunque sono.
Per dirla con Merleau-Ponty, il corpo è il mezzo generale per avere un mondo, è là dove c’è qualcosa da fare. Il corpo come insieme dei vincoli e delle possibilità che ci aprono o ci chiudono al mondo. L’ipotesi tanto affascinante quanto solida è che i semi delle patologie della personalità vengano piantati molto presto nelle storie di vita dei futuri pazienti. Il terriccio di questa infelice e precoce coltura è il corpo in relazione con il corpo del caregiver, ovvero la relazione nella sua dimensione incarnata. Per dirla con Allan Schore (la cui neurobiologia interpersonale costituisce uno dei pilastri della costruzione teorico-clinica del testo) l’intersoggettività è pertanto più di un incontro o di una comunicazione di cognizioni esplicite. Il campo intersoggettivo co-costruito da due individui include non solo due menti ma due corpi.
Direttamente con le parole dell’autrice:
Un caregiver con difficoltà personali non riesce a mantenere la necessaria sintonizzazione per raggiungere il processo di regolazione affettiva ottimale in modo automatico, non verbale e visuofacciale, radicata in meccanismi di comunicazione da emisfero destro e corporei. Quando questo avviene parliamo di trauma relazionale infantile. L’attaccamento sicuro dipende dalla sintonizzazione neurobiologica della madre non con la cognizione e il comportamento del bimbo, ma piuttosto con le alterazioni dinamiche dell’arousal autonomico del bambino. Il caregiver e il bambino imparano ognuno la struttura ritmica dell’altro, modificano il comportamento per adattarsi a quella struttura, co-creando un’interazione specificatamente adattata momento per momento.
È nelle prime esperienze relazionali con i caregiver, quindi, che si costruiscono le memorie implicite corporee che guideranno le successive esperienze del paziente. L’occorrenza di traumi relazionali infantili predispone, secondo l’ipotesi del libro, alle patologie della personalità, secondo un gradiente di gravità che varia in base alla natura del trauma e soprattutto in base alla precocità dello stesso: si va dal meno grave disturbo isterico-istrionico (in cui permane una residua capacità simbolica) per arrivare ai più gravi disturbi di personalità antisociali passando per i borderline proper (diagnosi sovrapponibile al cluster individuato dal DSM 5), i borderline con basso livello di funzionamento, il disturbo narcisistico e la dimensione psicosomatica dei disturbi di personalità.
Mucci riprende la concettualizzazione di Kernberg sui disturbi di personalità: per cui si tratta non tanto di classificare in maniera descrittiva i diversi cluster e i diversi disturbi quanto piuttosto del tentativo di teorizzare un’unica patologia della personalità che abbia trasversalmente delle caratteristiche comuni e un’unica eziopatogenesi di origine traumatica (si fa riferimento al trauma relazionale complesso: costrutto riconosciuto dal PDM ma non ancora dal DSM, anche se, a rigor di cronaca, nella quinta edizione di quest’ultimo è presente il tentativo di descrivere questa classe di disturbi in maniera dimensionale e non categoriale).
Il corpo borderline è un corpo che ha accusato il colpo; un corpo che, col suo linguaggio non pensato, adesso parla. Conosce qualcosa che, appunto, non è mentalizzato. Veicola un’esperienza che non può essere formulata.
Tutti i casi mostrati nel testo mostrano come le emozioni, per eccesso (come nei borderline gravi che hanno problemi di controllo) o per evitamento e isolamento, trovino la strada del corpo se non regolate o elaborate, come accade per l’alessitimico, che non è consapevole di esse, o l’ipocondriaco, dove il soma ha preso l’intera scena e la relazione con il mondo esterno e la capacità autoriflessiva sono molto ridotte.
(…) pertanto, i sintomi evidenti nel sé somatico dei pazienti gravi, come sono i disturbi di personalità, sono un segno e devono essere letti come una traccia nel ricostruire le relazioni precoci inscritte sulla superficie o dentro il corpo così come nelle strutture neuronali del cervello, e sono quegli scambi precoci che devono essere riparate nel trattamento, a partire dai circuiti impliciti del sé. Vedremo come il trattamento sia fondamentalmente un viaggio di testimonianza, o di embodied witnessing, di testimonianza incarnata.
La terapia, per cui, risulta un processo di costruzione diadica di un campo di esperienza intersoggettivo. Non possiamo esser più, come psicoterapeuti, degli osservatori neutri dei fenomeni che ci appaiono davanti (sempre che questo sia mai stato possibile, ma sicuramente è stato ed è ancora teorizzabile) ma sarà necessario trasformarsi in osservatori partecipi per dirla con Sullivan, in testimoni benevoli e soccorevoli della sofferenza dell’altro. Il passaggio dal ripetere traumatico al ricordare traumatico può avvenire solo in presenza di un clinico emotivamente e corporeamente presente e partecipe. La riconnessione con le parti dissociate (che agiscono nel corpo e attraverso il corpo) avviene solo nello spazio di un rapporto dialogico costruito da due sistemi, nello spazio di un inconscio duale e incarnato.
Prendendo a prestito un noto aforisma di Stendhal è possibile che Clara Mucci, con questo testo così denso, ci suggerisca l’idea e la pratica di una psicoterapia come uno specchio che percorre una strada maestra, che a volte riflette l’azzurro del cielo e a volte il fango delle pozzanghere. Siamo specchi incarnati e deformati di certo, ma forse gli specchi migliori per testimoniare le storie di queste sofferenze.
Gianluca D’Amico
Psicologo, esperto in psicologia dell’invecchiamento. Lavora tra il Piemonte e la Lombardia nell’ambito della valutazione e della riabilitazione neuropsicologica. I suoi interessi teorici vanno dalla storia della psichiatria all’epistemologia.
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