In quanto docente di psicologia dello sviluppo e psicologo clinico che si occupa da più di vent’anni di abuso e maltrattamento infantile, nelle ultime settimane ho letto con interesse diversi commenti sul “caso Bibbiano”. Il più centrato, ed utile a una riflessione che non si impantani nelle particolarità del singolo caso giudiziario, mi è parso quello di Ernesto Galli della Loggia pubblicato il 27 Luglio sul Corriere della Sera. La vicenda viene descritta come “uno dei tanti effetti di quel grande fenomeno della modernità contemporanea che è una malintesa e indebitamente estesa psicologizzazione della vita”. Fenomeno che, secondo l’autore, ha due effetti fortemente distorcenti per la comprensione del comportamento umano: una tendenza a privilegiare spiegazioni di tipo traumatico-psicologico a scapito di fatti concreti ed evidenti; e la sistematica problematizzazione di comportamenti che si allontanino da una presunta normalità.
Sintetizzo: nella società psicologizzata, tende ad imporsi una psicologia banale e ottusa. Nel sentire comune, infatti, non sembra fruttare granché l’enorme patrimonio della scienza psicologica che dalla seconda metà dell’800, adottando il rigore del metodo scientifico per l’indagine dei fenomeni consci e inconsci, tanta conoscenza ha prodotto sui processi mentali che regolano l’agire umano. Quel patrimonio viene dilapidato a favore dell’adozione di un paradigma in cui la psicologia coincide con una sorta di “psicologia dei comportamenti devianti” ipersemplificata. Alla cui base, soprattutto in riferimento allo sviluppo dei bambini, vi sarebbero principalmente cause ambientali esterne all’individuo – se non fosse chiaro: le colpe dei genitori.
L’affermarsi su larga scala di questa pseudo-psicologia è alimentato da un fenomeno che altrove ho chiamato pantraumatismo: la convinzione, cioè, che ogni circostanza avversa vissuta da un bambino si tradurrà necessariamente in un trauma. La psicologizzazione dilagante, infatti, scaturisce dall’idea – scientificamente del tutto infondata – secondo la quale accadimenti stressanti, frustrazioni prolungate, cure genitoriali meno che ottimali implichino in modo inevitabile un disagio nel bambino. Con il risultato che tali eventi ed esperienze vengono considerati traumatici a prescindere, dimenticando una lezione fondamentale della psicologia e della psicotraumatologia: il ruolo decisivo giocato dal filtro soggettivo, cioè il significato che attribuiamo all’esperienza, nel consentirci o meno il superamento di un evento avverso. Non è l’evento in sé, a traumatizzarci, bensì l’impossibilità di pensarlo e rappresentarlo mentalmente senza esserne sopraffatti.
Nelle famiglie attuali, gli attori che vediamo agitarsi lungo questo orizzonte dove tutto è trauma tendono ad assumere comportamenti rigidi e dagli esiti prevedibili. I genitori appaiono sopraffatti tanto dalla paura di mandare in frantumi il proprio fragilissimo bambino con errori fatali, quanto dal senso di colpa che ne deriverebbe. Di conseguenza, sostituiscono la loro azione educativa (per sua natura dialettica e frustrante) con un atteggiamento di gratificazione continua dei desideri del bambino (la non contrapposizione come misura di salvaguardia dal trauma sempre in agguato). E questo bambino, improbabile reuccio querulo e insaziabile, costruisce indisturbato, giorno dopo giorno, la sua vera fragilità futura: l’incapacità di confrontarsi con il principio della realtà e gli ineludibili limiti che essa presenta.
E noi “tecnici”? Psicologi, neuropsichiatri infantili, assistenti sociali, educatori delle case-famiglia, insomma figure professionali che lo Stato opportunamente prevede nei servizi sociali e nelle istituzioni con il compito di sostenere e supportare le famiglie: quanto ne sappiamo, noi, di quella mole ingente di ricerche longitudinali sulle condizioni di rischio per lo sviluppo dei bambini che disegnano un quadro totalmente diverso dalla prevalente narrazione pantraumatica? Quanto le abbiamo studiate, e tradotte in prassi operativa cauta e consapevole quelle ricerche che, seguendo la vita di neonati per alcuni decenni, ci dimostrano che i bambini hanno bisogno di affrontare e risolvere problemi? Che, per dispiegare al meglio le loro disposizioni latenti, devono confrontarsi con situazioni stressanti, ad esempio risolvendo conflitti con genitori che non li capiscono e da cui non riescono a farsi capire? E ancora: chi sa, e magari sa spiegare all’interno dell’ennesimo corso di formazione sugli abusi e maltrattamenti infantili, che per più della metà del tempo in cui interagiscono, un neonato di pochi mesi e sua madre non si capiscono? E che, poco dopo, al secondo tentativo ce la fanno? E che il concetto di madre “sufficientemente” buona vuol dire proprio questo? Che se un bambino di tre anni davanti ad un marshmallow saprà attendere qualche minuto senza mangiarlo così da averne un altro in premio, a 40 anni sarà un adulto con indicatori generali di soddisfazione e realizzazione di vita ben superiori rispetto al suo coetaneo che all’epoca non seppe attendere, mancando allora di tolleranza alla frustrazione e di forza di volontà? Che uno schiaffo di frustrazione a nostro figlio che si era allontanato e non ritrovavamo più in un centro commerciale affollato, non è propriamente una forma di abuso fisico?
Come per le vacche di Hegel, se tutto è trauma, niente è trauma. E invece i traumi ci sono. Uno, enorme e dalle conseguenze spesso irrimediabili, da Freud ai giorni nostri la psicologia continua a confermarlo attraverso le più diverse teorizzazioni e ricerche sistematiche: la privazione e l’abbandono da parte della figura materna, e più in generale delle figure genitoriali, durante l’infanzia. È fondamentale e fondante, per il bambino, il suo bisogno di fidarsi e affidarsi a chi lo ha messo al mondo, e di trovare in ciò ogni giorno stabilità e prevedibilità. Questo – mi dico –, almeno questo, dovremmo saperlo tutti! Tutti, metterlo al vertice della nostra azione rivolta al sempre sbandierato migliore interesse del minore, ricorrendo alla misura estrema del suo allontanamento dalla famiglia solo in presenza di fatti concreti ed evidenti. Ma a ben vedere, sotto questo cielo nero del trauma incombente in cui il bambino è un cristallo pronto a rompersi per mano dei propri genitori, le cose non stanno proprio così.
Prof. Giampaolo Nicolais
Professore Associato di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione
Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica – Facoltà di Medicina e Psicologia – Sapienza, Università di Roma
Presidente “Associazione Italiana per la Salute Mentale – AISMI”
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