THE WHALE – Film del 2022 diretto da Darren Aronofsky (recensione di M. De Franceschi)

THE WHALE – Film del 2022 diretto da Darren Aronofsky
Reperibile su Netflix e altre piattaforme.
Recensione di Massimo De Franceschi, psicologo-psicoterapeuta

E’ un film, vincitore di numerosi premi (tra cui un oscar all’attore principale Brendan Fraser e uno per il trucco), che attira come attirano le cose, i fatti, gli oggetti che ci fanno ribrezzo o che ci fanno paura. E’ il fascino dell’insolito, dello sbagliato, del ‘non è così che dovrebbe essere’. E non sto parlando solo del corpo, enorme, deforme, del protagonista Charlie (che il regista, utilizzando tutte le possibilità cinematografiche, ci mostra senza pietà). La casa, buia, chiusa, puzzolente… il buttar via la propria vita… le relazioni sbagliate, le scelte di vita che si rivelano fonti di sofferenze non pienamente calcolate… Ci attira scoprire come tanto sfacelo sia stato possibile a partire da una situazione iniziale di umano (e quindi relativo) benessere. Il protagonista aveva una famiglia, un lavoro appassionante, relazioni ricche e diversificate, e poi… Poi ha fatto la scelta di seguire una passione sbocciata, non sappiamo se ‘improvvisamente’ emersa dall’inconscio o ad un qualche livello di consapevolezza già presente, magari ben prima del matrimonio, verso un altro uomo, un suo studente. Ma non è solo un film su un amore omosessuale sfociato in tragedia a causa dei soliti pregiudizi religiosi omofobi. Sarebbe davvero semplicistico vederlo così. I temi sono diversi e le differenti sensibilità degli spettatori coglieranno quelli che maggiormente risuonano in loro.

Ma andiamo con ordine. Il film inizia con frasi di incoraggiamento di Charlie, docente on line di un corso di scrittura creativa per universitari. Con voce calda e comprensiva il protagonista esorta i suoi studenti a cambiare le loro tesine, per renderle più chiare, persuasive e soprattutto più sincere. Ma lo fa proteggendo la propria immagine di uomo fortemente obeso: afferma, mentendo, di avere la telecamera del PC rotta. Frasi toccanti, che ogni alunno vorrebbe sentire dal suo insegnante, ma, subito dopo, il regista ci mostra il protagonista intento a masturbarsi (non riuscendoci, anzi correndo il rischio di avere un infarto) davanti ad un filmato pornografico di omosessuali. Perché questa scelta? Perché passare in pochi secondi da frasi alte e nobili a comportamenti che hanno a che fare con ben altre motivazioni (badate bene: non meno importanti, solo molto diverse e di tutt’altro genere, più legate alla materialità del corpo, se vogliamo accettare per un momento il sorpassato dualismo cartesiano)? Credo che il regista voglia suggerirci che siamo tutti fatti da parti, motivazioni, bisogni diversificati e che tenere tutti questi fattori insieme e dare loro il giusto riconoscimento e integrazione dentro di noi potrebbe farci comprendere meglio noi stessi e gli altri restituendoci un’immagine della realtà giustamente più complessa. Differenti aspetti di sé in lotta tra loro li troviamo in tutti i personaggi del film: il ragazzo ‘missionario’ di una setta che assiste accidentalmente alla scena descritta prima, la ex moglie, la figlia, l’infermiera (sorella adottata del ragazzo di cui si è innamorato Charlie)… I personaggi del film, tratto da un’opera teatrale, sono pochi e tutti ruotano attorno al protagonista. Tutto il film è ambientato in poche stanze di una casa.

In occasione del mancato infarto durante la scena iniziale, scopriamo che il protagonista, per ridurre la tachicardia utilizza una frase, poi sapremo scritta parecchi anni prima dalla figlia come compito scolastico a commento del romanzo Moby Dick di Melville (The Whale è anche il titolo della prima edizione del romanzo omonimo). E davvero, in diverse scene del film, Charlie somiglia alla balena protagonista dell’opera di Melville: quando si erge faticosamente dal divano addirittura emette suoni che la richiamano. La frase, tenuta sempre a portata di mano, è sentita come sincera, vera, non conformista. Ed è questo tema, la sincerità, uno dei due fili rossi del film. E’ la prima richiesta che il protagonista fa ai suoi discenti, è ciò che mostra e richiede (anche in modo aggressivo fino alla spietatezza) la figlia, è ciò che mostra l’infermiera-amica, è ciò che credeva per la ex moglie essere la base del rapporto con Charlie. Al contrario veniamo a sapere che il giovane missionario agisce all’ombra di una inautenticità propria e non accoglienza dell’altro, nonostante le apparenze. Non possiamo dimenticare che il dramma familiare, separazione e abbandono della famiglia che Charlie si era costruito, forse poggiava su una mancanza di autenticità: non sappiamo se l’omosessualità del protagonista fosse da sempre da lui conosciuta (almeno in parte) e fosse stata negata, oppure fosse emersa in seguito. In ogni caso una parte, una versione di Charlie, non aveva trovato accoglienza nella moltitudine di sé che costituisce tutti noi e che, se ben integrate, formano la nostra complessa e poliedrica personalità capace contemporaneamente, almeno in parte, di gestire le esigenze proprie e di chi ci sta attorno.

E che cosa succede quando non siamo autentici? Il film sembra indicare la possibilità che, in questo caso, le relazioni si inquinino e vengano stravolte, anche retrospettivamente. Notevole è il ricordo che la figlia ha delle bistecche che il padre aveva cucinato per lei e per quello che era già il suo amante e che lei ricorda come particolarmente buone. E’ questa la grande accusa che la figlia fa a Charlie; lei ha subito un doppio tradimento: non solo il padre ha lasciato la madre e lei bambina, ma ha anche mentito sul suo essere, in parte o in toto, omosessuale (raramente nei dibattiti psicologici sull’argomento si prende in considerazione questo secondo aspetto: nel tentativo di normalizzazione ci si dimentica della fatica imposta ai figli davanti ad un genitore che scoprono profondamente diverso da come lo avevano immaginato). E se vogliamo non si è dato neanche abbastanza pena di restare, in qualche modo nella vita della figlia (l’opposizione, vera o presunta della madre, è una scusa troppo usata in questi casi per essere vera… soprattutto tenendo conto tutti gli anni passati e il fatto che mai la ragazzina sembra essersi opposta a proposte di incontri): la prima prova che la ragazzina chiede al padre è di andare verso di lei, sembra dire al padre ‘vieni qui da me, vieni anche con tutti i tuoi difetti’… I soldi accantonati per la figlia certo non possono sostituire la presenza, magari anche periferica, di un padre. La gelosia della ragazzina emerge, oltre nell’episodio citato delle bistecche, anche verso l’uccello che il padre cura lasciandogli pezzi di cibo (sarà lei, poi, a rompere il piatto del volatile). Un doppio tradimento quello che il padre agisce nei confronti della figlia che non ha potuto non influenzare la visione degli altri che la ragazzina ha del mondo. “Odio tutti” è l’unica frase sincera che accetta di scrivere su richiesta del padre. E siccome non possiamo non amare, come ci ricorda alla fine il protagonista, quando non siamo autentici, e in qualche misura facciamo del male agli altri, compare l’inevitabile senso di colpa che, nella maggioranza dei casi, si basa su reali atti mancati o agiti. Ecco il secondo filo rosso del film: Charlie è appesantito, schiacciato, letteralmente dal ‘peso’ del senso di colpa. Verso la famiglia lasciata e verso il compagno che non è riuscito a salvare, verso se stesso per la vita che ora conduce… Charlie si sente una concentrazione di male (l’interpretazione più accreditata di Moby Dick è appunto quella che la considera come il male assoluto, stranamente bianca e quindi accecante e affascinante) e per questo cerca di amplificare comportamenti e pensieri opposti (formazione reattiva): non lo vediamo mai perdere la pazienza, essere ruvido o poco comprensivo. Ma il misconoscere parti di sé, non legittimarle in qualche modo, produce una tensione che può sfociare in gesti nocivi per sé e gli altri: il compagno di Charlie, il ragazzo per cui lascia la famiglia e che muore suicida, era da sempre combattuto tra l’appartenenza a una religione (rigida e scarsamente accogliente le diversità e rappresentante della sua famiglia, un legame con le origini) che pure sentiva come parte di sé, anche per via del suo non completo svincolo familiare, e l’ugualmente tendenza profonda a sentirsi attratto da altri uomini; la moglie che cerca di annegare nell’alcol immagini non sufficienti buone di sé come madre e moglie.. Tutti abbiamo nella testa una stanza, come quella del compagno che il protagonista ha tenuto chiusa per tanto tempo, che sappiamo esistere, ma che teniamo chiusa per non dover fare i conti con gli specchi che rimanderebbero immagini di noi che preferiamo non vedere. Tutti abbiamo dentro di noi una balena bianca e il volerla uccidere a tutti i costi ci condanna inesorabilmente a perire con lei. Il dare la possibilità di esistere anche a queste parti di noi assicurerebbe il permanere delle colpe, reali, esistenziali, nel territorio delle eventualità umane senza che passino in quello molto meno maturativo dei sensi di colpa nevrotici.

Se negare parti di sé e non essere autentici è foriero di relazioni disfunzionali e insalubri cosa fare quando nella vita emergono versioni contraddittorie di noi? Che cosa fare quando l’amore per la propria famiglia scelta e volontariamente costruita si scontra con la passione emergente verso un altro essere umano? Ovviamente il film non dà soluzioni semplicistiche, ma ne vediamo alcune nei personaggi che, tutti, si dibattono in dilemmi morali e quindi relazionali. L’infermiera oscilla tra le richieste insistenti di ospedalizzazione di Charlie e il suo comprargli il cibo che inesorabilmente lo porterà alla morte; la figlia ha scelto una parte di sé, quella che odia tutti come conseguenza di un dolore non riconosciuto annullando l’affetto che (forse) ancora prova; anche il giovane missionario annullerà la parte di sé che l’ha portato prima a criticare i metodi della propria religione e poi a commettere un furto a danno della stessa (accetterà un perdono rassicurante e rientrerà nei ranghi) come anche sembra non accorgersi della doppiezza di comportamenti verso Charlie e verso il suo orientamento sessuale.

Legittimare una sola posizione, come fanno i personaggi appena citati o evitare almeno per un po’  la questione come fa la moglie di Charlie con l’alcol, non sono strategie funzionanti sul lungo periodo…

Tenere insieme, in modo creativo, con una narrazione originale e personale che integra parti opposte di sé, è questo il compito, sempre arduo e faticoso, che spetta tutti noi. Andare avanti, senza rinnegare il passato, ma integrandolo in una visione compassionevole di sé sembra essere l’unico sentiero percorribile. Ma Charlie non chiede perdono, mai, si scusa soltanto, come se fosse stato mosso da forze incontrovertibili, come se non sentisse il dolore delle persone che ha davanti… in The Mission (film del 1986 diretto da Roland Joffé con una indimenticabile prova di De Niro) il protagonista, invece, lascia il peso delle armature solo dopo aver ricevuto il perdono per la propria attività di schiavista.

Oltre ai suddetti due, diversi altri temi vengono trattati nel film. Ne cito solo un altro, quello relativo al sempre discusso argomento dell’accettazione o meno delle necessarie cure da parte del paziente. Charlie sa bene che il suo stile di vita lo porterà alla morte, come sa che la sua unica speranza consiste nel farsi ricoverare e iniziare un percorso di perdita peso e cambiamento di stile di vita. Ma non accetta tale possibilità trincerandosi dietro un supposto sacrificio a beneficio economico della figlia. Ancora una volta il protagonista sembra non cogliere le diverse sfaccettature di comportamenti e persone: valuta sé e gli altri in modo unidimensionale, come solo essenzialmente buoni gli altri e cattivo se stesso. Ma la simpatia e la compassione che questo atteggiamento suscita in noi ci fa correre il rischio di assumere lo stesso atteggiamento aprioristicamente accettante che, se pur evita di dover fare i conti con conflitti e attriti, ci allontana dalla realtà degli esseri umani che, inevitabilmente, sono un miscuglio indistinguibile di bene e male (per usare categorie di uso comune). La salute e il benessere relazionale, insomma, sono il risultato di un’integrazione complessa che senza negare aspetti di sé poco simpatici integra in un tutto coeso le diverse parti di noi stessi.

Lascio i diversi altri temi sfiorati dal film (il rapporto con la religione, lo stigma dell’essere obeso, il rapporto discenti-maestro) a chi ha più tempo e capacità di me.

21/03/2024

Massimo De Franceschi, psicologo psicoterapeuta

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