Franco Michieli (2019) La vocazione di perdersi. Piccolo saggio su come le vie trovano i viandanti. Edicicloeditore, pp. 90 (quarta ristampa), Euro 9,50.
Recensione di Massimo De Franceschi e Silvia Grassi
E’ da quando la teoria di Bowlby ha giustamente guadagnato consensi, praticamente in tutte le scuole di psicologia e psicoterapia, che il bisogno di sicurezza è stato posto al centro di diverse visioni dello sviluppo e della cura.
Ormai tutti gli approcci psicologici sottolineano l’importanza di sentirsi al sicuro nella relazione terapeutica e tutti indicano in questo elemento un imprescindibile primo passaggio per l’intervento, quando non costituisce di per sé un fattore riparativo di primaria importanza. Pensiamo a tutte le tecniche, ormai non più innovative, che partono dal ‘basso per arrivare in alto’, oppure andiamo a leggere i testi di riferimento dei principali approcci terapeutici… e ci troveremo tra i primi capitoli quello relativo alla necessità di mantenere una buona sicurezza nell’alleanza terapeutica. Se poi affrontiamo il tema del trauma sempre più presente oggi nella psicopatologia, troviamo, correttamente, una enorme attenzione alla sicurezza del paziente al fine di affrontare i mostri che alcune esperienze hanno generato.
Eppure… Sempre più, e da diverse parti, giunge come un’eco di un altro fondamentale bisogno umano che al momento, complici anche la situazione sanitaria, critica ormai da qualche anno, e gli enormi cambiamenti economici-culturali, sembra essere sottaciuto, sottovalutato: il bisogno di esplorazione. Sappiamo che solo chi è sufficientemente sicuro è in grado di esplorare davvero, solo chi ha un porto a cui tornare e navi abbastanza solide può partire per la ricerca del Nuovo Mondo (interno ed esterno). Del resto anche stare fermi e non esplorare è rischioso perché inconsapevolmente rende rigidi e resistenti al cambiamento. E poi tutto il nostro senso di sicurezza è un’illusione che ci teniamo stretta: lavoro, affetti, salute, tutto è molto più precario di quanto immaginiamo. La sicurezza del percorso usuale può nascondere scoperte interessanti, a volte vere rivoluzioni; percorrendo strade note siamo distratti, convinti di conoscere già: gli schemi, di cui abbiamo necessità e che sono inevitabili, sono gli stessi che ingabbiano il pensiero e il cuore nel già noto, nell’immobilismo… nella morte.
Ma, e qui arrivano i problemi, non si può esplorare senza rischio di perdersi. Smarrirsi, sentire che vengono meno i punti di riferimento consueti, sentirsi in pericolo, anche di vita (psichica o fisica), sono correlati naturali di una reale esplorazione.
Ecco che allora imbattersi in un libretto apparentemente modesto, brevissimo (se si vuole lo si legge in due ore, ma il consiglio è quello di sorbirlo lentamente per permettere a pensieri e emozioni di emergere con il giusto ritmo) non può che portare a un corretto riequilibrio di questi due fondamentali bisogni umani: se da tempo assistiamo a una sottolineatura del bisogno di sicurezza (vicinanza protettiva, calore, confort, tranquillità, prevedibilità) è forse giunta l’ora di spingere noi e invitare con decisione i pazienti verso l’altro polo, il bisogno di esplorazione (novità, ricerca, freschezza, cambiamento).
Il libro di Franco Michieli, La vocazione di perdersi. Piccolo saggio su come le vie trovano i viandanti, se letto come metafora del percorso di vita, non mancherà di suscitare profonde riflessioni ed emozioni. L’intento di chi ora scrive è proprio quello di utilizzare le descrizioni che l’Autore fa, riferendosi ai propri viaggi, come allegorie, simboli utili per comprendere la vita di tutti i giorni, come anche uno stimolo per riflessioni sull’intera esistenza personale e quindi anche professionale (per un esempio vedere la descrizione dei paesaggi sconosciuti delle pp. 29-31 come immagine dell’incontro con una persona). Del resto le consapevolezze avute in esperienze oggi rare, che i nostri progenitori facevano quotidianamente, venivano già di per sé tramandate sotto forma di metafora e di mito e sempre avevano a che fare con il rapporto dell’essere umano con la realtà che lo circonda, prima tra tutte gli altri uomini, ma anche la natura. Le metafore sono portatrici di una ricchezza di interpretazioni personali che sfugge agli scritti di altro tipo così “chiari e precisi e banali da non dire niente” (Francesco Guccini in ‘Dovevo fare del cinema’). Chi scrive cerca nei racconti, nelle biografie e nei testi densi di esperienza umana, più che nei libri accademici ‘ufficiali’, gli spunti per riflettere su di sé e sulla propria vita (e secondariamente per trarre qualche idea per il lavoro clinico).
Michieli, geografo, esploratore e scrittore, nel libro riflette sul proprio personalissimo percorso che, a partire dalle semplici esplorazioni che facciamo anche noi in montagna, lo ha portato, nel corso dei decenni, a percorrere vasti territori senza mappe e senza strumenti artificiali per l’orientamento, restando anche per mesi in territori scarsamente o per nulla abitati, a piedi, in balia di eventi atmosferici e degli imprevisti del cammino. Ma non lo fa per il gusto dell’estremo, del rischio, del cercare sensazioni forti, no… Nel corso del libro più volte torna sulle motivazioni profonde che lo portano a questa affascinante scelta di vita. Pur non essendo il suo un semplice andare in montagna per rifugi o bivacchi come possiamo fare noi, la sua esperienza ci può dire qualcosa, proprio a partire dalle nostre semplici avventure: per tutta la lettura del libro tali consapevolezze non mancheranno di risuonarci dentro e di suscitare un senso di familiarità e di riconoscimento.
Vado con ordine, ma senza la paura di perdermi un po’ e di non riuscire a passare tutta la profondità di intuizioni che abbiamo avuto incontrando le sue narrazioni…
Oggi facciamo di tutto per non perderci, siamo pieni di strumenti che si frappongono alla realtà per arrivare alla meta prescelta senza intoppi, per la via più breve, in minor tempo, perché il nostro scopo è ciò che troveremo all’arrivo. E in questo non c’è nulla di sbagliato, certo, ma… se agiamo sempre così ci perdiamo la possibilità di una vera esplorazione e quindi della possibilità di… perderci!
Ecco: non possiamo esplorare senza il rischio di perderci; l’accettare di perderci, di sbagliare strada, conseguenza inevitabile di qualsiasi scelta, ci dà la possibilità di ritrovarci diversi, trasformati, maggiormente in intimità con noi e più consapevoli di cose, valori, idee, che davvero sono importanti. Attraverso il perderci facciamo esperienza intima di noi stessi e, come tutti i veri incontri, può emergere l’imprevedibile, una versione di noi rimasta in ombra nonostante la sua importanza, ora evidente, che mai avremmo incontrato percorrendo le solite strade conosciute. Il perdersi ci dà la possibilità di rinascere diversi o di riconquistare e fare davvero nostro un patrimonio ereditato senza fatica.
Ma il perdersi ha grandi nemici nel mondo occidentale contemporaneo: bisogna avere tempo da dedicargli (grande povertà del mondo occidentale moderno) e non avere fretta di rientrare nel mondo abitato; bisogna tollerare gli errori, come fa la Natura, che da questi seleziona esseri ancora più adatti; bisogna dare fiducia alla vita che non prevediamo; bisogna, infine, tollerare la paura e fare affidamento su di sé, consapevoli che siamo figli di una storia lunga milioni di anni che ha collocato in parti poco considerate di noi (conoscenza procedurale, implicita, tacita) risorse e contenuti che aspettano solo di emergere ed essere coltivati.
Insomma la vocazione del perdersi invita a superare quel restare al sicuro, nella nostra zona di confort e prevedibilità: è una vera pratica educativa e quindi, inevitabilmente, di libertà.
Ma esplorare e perdersi per cercare e forse trovare che cosa?
Prima di tutto, esplorando territori sperduti o di montagna si fa ‘esperienza di orizzonte’ e della bellezza che mostra e nasconde: meraviglia, paura e possibilità si mescolano e ci fanno sentire la voglia di sperimentare, mettersi alla prova, scoprire e scoprirsi. Scegliere una via, un percorso per avvicinare l’orizzonte è una necessità, oltre che un’esposizione al perdersi. Le vie che prendiamo, soprattutto se non ben segnate, nascono dall’incontro di chi siamo noi, immaginazione, bisogni, caratteristiche, con l’oggettività del mistero di ciò che sta davanti a noi e che ci spinge a far emergere il non usuale. Il camminare lentamente verso un orizzonte non ben conosciuto è educazione alla fiducia, al perseguimento di un obiettivo che sta anche in ciò che si trova lungo il cammino e non solo nella sua meta: senza fiducia non c’è marcia. Del resto anche per camminare bisogna accettare un momentaneo sbilanciamento in avanti, con la fiducia di non cadere rovinosamente…
Neppure per i nostri antenati esplorare veramente, e la conseguente quasi inevitabilità del perdersi, ha avuto a che fare solo con le necessità contingenti legate alla sopravvivenza fisica… esplorare ci mette in contatto con un ancora più profondo bisogno tipicamente umano: la ricerca di un senso, di uno scopo, di un incontro con un elemento trascendente che dia senso alla fame di infinito che sembra pervadere l’uomo. Ecco, nel perdersi, nell’allontanarsi, cioè da percorsi prestabiliti, artificiali, usuali per immergersi nella natura è possibile di nuovo avvicinarsi alla “logica dell’universo” (p.26) dentro la quale esistiamo e che respiriamo senza accorgercene. E senza mappe, come fa Michieli, si ridesta la sensibilità per quelle parti di noi sopite dalla vita usuale e che contengono, al pari della conoscenza esplicita, possibilità di spiritualità. Quella logica dell’universo che occasionalmente si scorge nell’interazione di linee, colori, movimenti e che rivela qualcosa di sacro, nel senso di una connessione tra le cose che ‘va oltre’, qualcosa che rompe l’isolamento e ci mette in relazione al visibile e all’invisibile (p.88). Tornare a non primeggiare su tutto, ma ad essere parte del tutto, ci fa intuire un’altra realtà possibile dietro le realtà incontrate: potente contrasto al nichilismo imperante oggi che vuole i “materialisti, con il loro chiodo fisso, che Dio è morto e l’uomo è solo in questo abisso… le verità cercate per terra da maiali, tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali” (Francesco Guccini in ‘Cyrano’). Perdersi può voler dire sentire il bisogno di nuovi punti di riferimento per acquisirne di totalmente nuovi e non solo riconfermare i vecchi (in questo il bell’articolo di D’Avenia sul Corriere della Sera del 24 maggio 2021 sul tema del perdersi mostra un importante limite): nell’esplorazione genuina, nell’incontro con la Natura per Michieli, è a rischio totale la vita fisica… per altri è la possibilità di un profondo cambiamento psichico, una vera nuova nascita, non un semplice riappropriarsi del già noto (cosa non da sottovalutare di per sé come dicevo prima).
Viste dalla giusta distanza le regioni, come la vita, nascondono una logica e una coerenza che non cogliamo se ci avviciniamo troppo… servirebbe una visione dall’alto dei territori, come di noi stessi, delle fasi della nostra esistenza che attraversiamo, delle persone che ci stanno accanto… per andare avanti con impegno e speranza che si alternano a momenti di sconforto e fiducia.
Accettare queste contraddizioni, nonostante ore di dubbi atroci, vuol dire accettare di vivere.
Massimo De Franceschi, psicologo, psicoterapeuta
Silvia Grassi, logopedista
Commenti recenti