La disciplina della Mindfulness tre le sue origini dalla tradizione contemplativa buddhista ed è descritta come “la consapevolezza che emerge ponendo attenzione in modo intenzionale, nel momento presente e in modo non giudicante al dispiegarsi dell’esperienza, momento dopo momento (Kabat-Zinn, 2003; Baer 2003).” Dimidijan e Linehan hanno affermato che le componenti fondamentali della mindfulness possono essere classificate in: osservare, notare; descrivere, etichettare; fare attenzione, partecipare. Gli autori inoltre identificano tre caratteristiche proprie del modo in cui questa attività viene praticata: 1) in modo non giudicante; 2) nel momento presente; 3) con accettazione.
Nella pratica clinica, così come nella vita, la coltivazione della mindfulness offrendoci la possibilità di osservare direttamente la natura dei pensieri, delle emozioni e delle sensazioni fisiche e i molti modi in cui essi ci trascinano via, ci permette di diventare, con impegno e perseveranza, più capaci di agire e scegliere con un grado maggiore di libertà, soprattutto nelle situazioni di maggiore stress o difficoltà.
Precedentemente all’avvento della Mindfulness, la psicologia occidentale ha sempre posto l’accento, e di conseguenza il target della ricerca in tale ambito, sugli stati d’animo negativi e sullo sviluppo di una serie di interventi psicologici creati per lavorare sulle modalità disfunzionali della mente, trascurando lo studio di quegli stati mentali positivi che generano salute psicologica ed equilibrio. Gli interventi basati sulla mindfulness invece, oltre a stimolare lo sviluppo della consapevolezza come capacità della mente di conoscere tutti i fenomeni presenti, favoriscono nei loro partecipanti il sorgere di qualità quali la compassione, la gioia, la gentilezza e l’ equanimità, universalmente riconosciute come portatrici di benessere. Lo sviluppo e la stabilizzazione di tali stati mentali salutari che viene definito spesso il cuore della pratica Mindfulness ha molto a che fare con la cura e la compassione che vengono richieste a chi svolge professioni di aiuto.
Sicuramente essere professionisti della salute rappresenta in un certo qual modo un privilegio, perché dona ogni giorno la possibilità di condividere attraverso il proprio lavoro aspetti molto profondi della vita dei pazienti; allo stesso modo prendersi cura degli altri comporta un carico notevole di fatica emotiva poiché espone enormemente alla sofferenza e al peso della compassione. La ricerca in tale contesto ci dice che i problemi psicologici legati allo stress sono particolarmente diffusi tra i professionisti della salute che lavorano in contesti impegnativi come gli ospedali (Shapiro & Carlson, 2013) e tra coloro che lavorano con categorie che richiedono un particolare impegno dal punto di vista emotivo, come i pazienti che hanno subito abusi, traumi o che sono affetti da disturbi di personalità. Viene confermato inoltre che i problemi psicologici affliggono una porzione significativa di professionisti della salute in vari momenti della loro carriera (Shapiro & Carlson, 2013) e che questi comprendono depressione, affaticamento emotivo, ansia, isolamento, riduzione della soddisfazione lavorativa, abbassamento dell’autostima, problemi nelle relazioni e solitudine.
Inoltre lo stress può danneggiare l’efficienza lavorativa dal momento che sembra avere un’influenza negativa sull’attenzione e sulla concentrazione, può limitare le abilità decisionali e ridurre la capacità di stabilire una relazione salda con i propri pazienti.
Questo avviene perché, quasi paradossalmente, i professionisti della salute spesso si dimenticano di prendersi cura di se stessi, non riconoscendo il bisogno di sostegno necessario per far fronte ai diversi elementi stressogeni provenienti dall’ambiente lavorativo. Da quasi trent’ anni gli specialisti del settore hanno identificato il problema e lanciato un appello al cambiamento, sostenendo l’importanza di inserire, come parte integrante della formazione specialistica, percorsi finalizzati alla gestione dello stress e al prendersi cura di sé.
Anche se la maggior parte delle ricerche inerenti la Mindfulness si è concentrata su di essa quale risorsa terapeutica per i pazienti, si ritiene che il suo apprendimento e la sua pratica possano essere particolarmente utili se inseriti in protocolli di prevenzione dello stress per le professioni sanitarie. Ma in che modo può essere utile per chi lavora a stretto contatto con la sofferenza altrui?
Prima di tutto la pratica della Mindfulness permette di contattare ed esplorare con maggiore apertura uno stato di sofferenza, offrendo la possibilità di comprendere meglio il personale modo che ognuno ha di relazionarsi ad essa. Il maggior grado di empatia che si inizia a sperimentare verso se stessi è la chiave per sviluppare questa capacità verso gli altri, connettendosi con lo stato di dolore senza esserne trascinati via. In secondo luogo essa guida ad osservare il meccanismo con cui mente, corpo e sentimento incontrano l’esperienza, stimolando la stabilizzazione di gentilezza, equanimità, gioia compartecipe e compassione. Queste qualità salutari, cercate e rafforzate dentro se stessi, sono di grande aiuto nel momento in cui la persona, non più solo il professionista, deve incontrare la sofferenza del paziente e gestirla nel rispetto di entrambe le parti. La coltivazione dell’equanimità ad esempio permette di connettersi al proprio dolore senza porlo in una condizione di inferiorità rispetto a quello degli altri, riconoscendo in ognuno il desiderio di sicurezza, stabilità e salute. La pratica della compassione concede il permesso di non essere infallibili, riconoscendo la propria sofferenza e connettendoci ai propri bisogni più intimi, imparando al contempo a riconoscere e rispettare quelli degli altri. La gioia compartecipe permette un’apertura, il più possibile libera da attaccamento, nei confronti dei momenti piacevoli, mentre la gentilezza è la porta di ingresso che conduce all’intimità con se stessi e con gli altri e alla libertà rispetto a ciò che è stato.
In ultimo, non in ordine di importanza, la pratica della Mindfulness può sostenere professionista e paziente nel difficile momento della frustrazione: quando un intervento terapeutico fallisce, quando il dolore sembra non avere soluzione, essa rafforza la possibilità di accogliere le cose per quello che sono, incitando a rispondere con quanta più consapevolezza e comprensione possibile. La pratica di questa antica disciplina favorisce con il tempo la costruzione di un luogo sicuro interiore che offre un grande spazio di contenimento emotivo per il paziente, proprio nel momento in cui sembra non esserci soluzione, e solleva il clinico dalla pressione di una condizione di onnipotenza nella quale egli sente di dover e poter ad ogni costo salvare il paziente con i soli propri mezzi, generando inutili condizioni di sofferenza e sovraccarico.
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