Laicità e neutralità dello psicoterapeuta: fraintendimenti procedurali e opportunità professionali.
Emiliano Tognetti
Psicologo, psicoterapeuta, giornalista pubblicista, collaboratore della Fraternità di Misericordia di Corsagna (LU).
Introduzione
Credo che per iniziare questo articolo, sia necessario partire da un’evidenza: l’essere umano è un essere materiale e spirituale. Questo nel senso di sapere che viviamo una vita su questa terra e poi – almeno molti di noi – hanno l’idea che ci sia un qualcosa dopo la morte: che sia un “niente”, il Paradiso o il nirvana o altro, è l’idea in sé che vorrei portare all’attenzione del lettore. Questa dimensione ha di certo una componente psicologica e, comunemente, è stata culturalmente e socialmente vissuta attraverso la religione. Come riporta Aletti (2006) [1] La condotta religiosa è oggetto specifico di studio fin nei primi scritti dei “padri” della psicologia come disciplina accademica. Basti pensare a Edwin D. Starbuck, che già nel 1899 pubblicò un volume di Psychology of Religion, o all’analisi della varie forme dell’esperienza religiosa di William James (1902), o al rigore epistemologico e metodologico proposto da Theodore Flournoy (1902, 1903, 1910) con l’esclusione del trascendente come oggetto di indagine, o agli studi sulla religiosità adolescenziale e sulla figura di Cristo di G. Stanley Hall (1904, 1917) o alla prospettiva di psicologia culturale (forse impropriamente tradotta come “psicologia dei popoli”) con cui Wilhelm Wundt guarda al mito e alla religione in ben tre dei volumi della sua Völkerpsychologie”. Esiste anche la divisione 36 dell’APA, l’American Psychological Association, che si occupa di religione e spiritualità. Con questo voglio dire che si può parlare, anche fra colleghi, e riflettere su questo tema che è importante per una parte dei nostri pazienti.
Quello su cui vorrei riflettere in questo scritto, non è ovviamente la legittimità della credenza o non credenza del paziente, ma il ruolo e l’atteggiamento professionale che un terapeuta potrebbe avere quando, in un percorso, la persona esponga questo aspetto, lo porti in seduta e ci chieda un confronto in merito. Questo per evitare quanto già osservava Allport, nel 1950, quando sosteneva che gli psicologi sanno occuparsi con molta franchezza del comportamento sessuale, ma arrossiscono ed ammutoliscono davanti alle tematiche religiose[2].
Sul concetto di laicità e del codice deontologico
Personalmente, credo che l’atteggiamento che dovrebbe avere uno psicoterapeuta nei confronti della dimensione religiosa o spirituale del paziente, sia quello laico.
Il problema però è sul concetto di laicità; sembra essere questo, infatti, il concetto che è alla base delle differenze personali. Faccio una premessa: non intendo mettere in dubbio le credenze, o le non credenze, dei colleghi terapeuti; voglio focalizzare l’attenzione sull’atteggiamento che, secondo me, è il migliore per fare un buon lavoro con i pazienti credenti.
Utilizzando uno strumento molto autorevole, come punto di partenza, comincerei col definire il termine laicità, prendendo la definizione che ne dà l’Enciclopedia Treccani:
Laico: chi non appartiene allo stato clericale; sono quindi laici., nella Chiesa cattolica, i fedeli che non sono né chierici né religiosi, ossia tutte le persone battezzate che non hanno alcun grado nella gerarchia ecclesiastica. Stato laico: quello che riconosce l’eguaglianza di tutte le confessioni religiose, senza concedere particolari privilegi o riconoscimento ad alcuna di esse, e che riafferma la propria autonomia rispetto al potere ecclesiastico.”[3]
È interessante notare come l’enciclopedia metta in risalto due tipi di stato laico: la laicità dello Stato può avere due diverse esplicitazioni, potendo consistere o in una rigida separazione tra lo Stato e le confessioni religiose (ad esempio, negli U.S.A. o in Francia) o in un favore o comunque in una protezione esplicita della pratica religiosa, purché senza discriminazioni tra le diverse confessioni religiose (tale è il caso, ad esempio, dell’Italia).
Io credo che l’atteggiamento laico del terapeuta, sia quello tenuto dalla concezione italiana, ovvero quello di “non essere rigido o discriminatorio”. Purtroppo, sia per formazione sia per sensibilità, l’atteggiamento di alcuni colleghi è quello del rifiuto di parlarne in quanto “non lo ritengono importante”, mentre per altri semplicemente, è il frutto di “idee, dogmi o retaggi di un passato oscurantista” (sono etichette, non esplicitano alcuna posizione personale o di colleghi).
Credo invece che l’atteggiamento professionale migliore per rispondere a quanto ci è richiesto dal Codice Deontologico Italiano, sia quello dell’ascolto, dell’accettazione e della conoscenza.
“Conoscenza”, non implica “conversione” o “credenza”. La “conoscenza” è una base per poter entrare in relazione con l’altra persona, per avere un terreno comune su cui poter instaurare il dialogo interpersonale. Noi d’altronde, ci siamo impegnati a operare “per migliorare la capacità delle persone di comprendere sé stessi e gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace” (art. 3) e a rispettare “opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il proprio sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità.” (art. 4).
Per fare questo non bisogna essere teologi o frequentare corsi specialistici, non ci è richiesto e anzi potrebbe essere fuorviante. Sicuramente, serve entrare in dialogo con la persona, serve aiutarla a esprimere il proprio punto di vista e capirlo. Se per lei/lui “il rapporto con Dio” è significativo, ritengo sia giusto prima di tutto analizzare il suo vissuto, capire il valore che ha per lei/lui, se questo ha magari tratti disfunzionali o meno, o se invece è un terreno per lei/lui favorevole per risolvere quel qualcosa che l’ha portata in terapia da noi.
Oggi non ci mancano certamente fonti autorevoli, semplici e non preconcette (in un senso o nell’altro) che possono aiutarci a entrare in dialogo con l’altro. Come non possiamo capire le metafore di un bambino, se non ne conosciamo il linguaggio, così difficilmente potremo capire se e quanto è significativo per una persona il proprio vissuto spirituale e religioso. Perché è diversa l’idea di Dio che ha un ateo, rispetto a quella che ha un musulmano, rispetto a quella che ha un cristiano e questo lo si può capire soltanto conoscendo, per quanto possibile, le basi di quella religione, filosofia o spiritualità.
Non ci capiterà sempre di incontrare persone che ci portano questa dimensione in terapia, ma questo è un terreno su cui spesso scattano dei “pregiudizi” perché sono legati a un sentire contemporaneo, o secolare, che spesso ha distorto in maniera più o meno consapevole, ciò che veramente si intende con i termini dell’ambito spirituale o religioso di una persona.
Credo che un terapeuta che voglia dare il meglio di sé a una persona, dovrebbe mettersi in questo atteggiamento; poi, nel rispetto dei propri valori personali, se vede che oltre un certo limite non riesce, farebbe cosa buona a inviare il paziente a un collega che sa essere esperto in quel campo.
Questo perché il nostro vero obiettivo, per fare un buon lavoro, è quello di accogliere un individuo in tutte le sue dimensioni personali e relazionali e riconoscere che, se ci sono dei limiti, questi non sono necessariamente un male, ma che sono quel confine che ci permette di essere una “base sicura”, almeno parziale, e che ci permetterà di poter dare ai pazienti altri riferimenti professionali, senza la paura del fallimento.
Un ambito particolare di analisi: quello cristiano.
Per poter lavorare con un paziente che porta la sua dimensione spirituale in terapia, occorre tenere a mente che sono molte le religioni, le filosofie e le credenze, più o meno codificate nel corso dei secoli. Nei prossimi paragrafi, io prendo in considerazione l’ambito su cui ho più competenza, quello cristiano. Altri colleghi, potranno calare questa impostazione nel loro credo, o nella prospettiva filosofica a loro più congeniale, professionalmente e personalmente parlando.
Che si possa affrontare anche la dimensione spirituale della persona in una terapia psicologica, ormai è un dato assodato; basti far riferimento, da un punto di vista scientifico agli studi del neuroscienziato Andrew Newberg[4] che, nel 1992, provò a capire gli effetti di varie forme di preghiera e meditazione sull’essere umano.
Anche altri illustri scienziati come Herbert Benson, cardiologo della Harvard Medical School “che ha studiato a fondo il ruolo che il sistema nervoso autonomo gioca nel processo della malattia umana” (Aleteia, 08/09/2020[5]).
Quello che vorrei presentare è una cornice teorica, una riflessione sulla possibilità di parlare del rapporto di un paziente con il Dio cristiano-cattolico, perché in questo credo, “Dio è persona”. Questa è una premessa necessaria da considerare in tutto il ragionamento di base che ho fatto.
Come punto di partenza teorico, ho ritenuto necessario un confronto fra la Sacra Scrittura, Magistero e uno dei modelli descrittivi più versatili nel panorama contemporaneo: il SASB (Structural Analysis of Social Behavior)[6] di Lorna Smith Benjamin (1974), introdotto in Italia da Pio Scilligo alla Pontificia Università Salesiana.
Come lei afferma a pag. 63 della versione italiana del suo libro “Terapia Ricostruttiva Interpersonale” (Raffaello Cortina, 2018), “L’Analisi strutturale del comportamento sociale (SASB) è un modello ben convalidato che permette di descrivere le interazioni interpersonali ed intrapsichiche con un linguaggio utile sia per la prassi clinica sia per la ricerca”.
Sono partito dal presupposto che il suo è un modello DESCRITTIVO e NON INTERPRETATIVO della dinamica interpersonale e quindi vuol capire la dinamica e non fornire una chiave di lettura preventiva della realtà, come può essere nel caso l’approccio dinamico o costruttivista. “Descrittivo”, non vuol dire “neutro”, ma si riferisce ad un modello che, per quanto possibile, cerca di costruire con il paziente un significato all’interno della relazione terapeutica, partendo dal sistema paziente, adattandosi alla relazione e non adattando la relazione a degli schemi precostituiti tipici di alcuni approcci psicoterapeutici.
In sostanza, si cerca di evitare per quanto possibile di correre quel rischio di cui parla il filosofo Karl Popper (1984) a proposito del fatto che alcune teorie come quella psicanalitica avevano, riferendosi al “loro apparente potere esplicativo. Esse sembravano in grado di spiegare praticamente tutto ciò che accadeva nei campi cui si riferivano.” [7]
Il modello SASB prevede tre superfici Io e Altro e il Sé, con i quadranti operativamente divisi fra “versante positivo”, quello a destra verso la punta “amore” ed il “versante negativo” verso la punta “odio”.
Considerando il fatto che “l’Io” rappresenta sostanzialmente il paziente, quindi la persona che noi abbiamo in terapia, la superficie che è interessante analizzare è la superficie “Altro”, in quanto è l’altro con cui mi relaziono.
Come già ricordato, nell’antropologia cristiana, “Dio è persona”. Questo è confermato in maniera esauriente dal Catechismo della Chiesa Cattolica, in particolare dai numeri 470-476[8]. Dio si è incarnato in Gesù, in un tempo ed in una storia ed ha interagito con le persone del suo tempo storico. Poi, grazie alla narrazione dei Vangeli, ai sacramenti ed alla tradizione della Chiesa, Lui in una prospettiva di fede è rimasto nel “qui ed ora”, come afferma in Matteo “io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Questa concezione di Gesù come persona con cui possiamo avere un rapporto quotidiano, è ripresa anche dall’Enciclica di Papa Francesco “Evangelii Gaudium” al punto 7[9].
Anche questo è un punto fondamentale, perché nella premessa del modello l’Altro deve essere reale, presente e reale ed in una prospettiva cristiana, questo è vero per la persona di Gesù Cristo, che da Risorto è “eterno”, cioè sempre presente e reale in ogni tempo e può essere considerato in tal senso, un interlocutore, con cui possiamo agire e di cui possiamo farci o ricevere un’idea.
Proseguendo in questo ragionamento teorico, come succede in ogni relazione interpersonale, ognuno di noi rispetto all’altro si crea un’idea, buona o cattiva e con questa agiamo verso il nostro interlocutore che potrà confermarla o smentirla.
Analogamente, noi riceviamo in famiglia, in parrocchia o nelle varie realtà ecclesiali, “un’idea di Dio” che potrà essere buona o cattiva e con la quale noi ci relazioniamo con Lui in una vita di fede.
Volendo leggere i comportamenti della superficie ALTRO sul Vangelo, possiamo agganciare questo discorso, rispetto a due visioni che Gesù propone di Dio: per la parte “a destra”, troviamo la definizione della bontà di Dio in Mc 10,18 (Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo.)
La visione “negativa” di Dio, che Gesù rimprovera agli uomini del suo tempo è quella di un dio “stereotipato”, ridotto alla tradizione e alla semplice legge, che snatura la realtà sostanziale di Dio “Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!” tutto il brano è Luca 11:37-54, ma sostanzialmente Gesù rimprovera loro di insegnare una legge che non è conforme alla volontà di Dio.
Questi sono solo due accenni, ma il Vangelo è pieno di riferimenti al “Dio di Gesù” che è buono ed è amore, ed il “dio della legge” che è stato snaturato del suo reale contenuto e ridotto solo all’esaudimento del precetto, senza che questi sia in realtà il frutto di una scelta di vita.
Questo è fondamentale, perché è possibile in questo modo è possibile attribuire per “analogia” anche al “Dio di Gesù” la parte “destra del quadrante Altro” (punta amore) e al “dio della legge” la parte sinistra (punta odio).
Sulla superfice “Sé” l’introietto, è possibile identificare i comportamenti che una persona ha in risposta ad un comportamento messo in atto verso “l’Altro-Dio”.
Questo è attribuibile secondo me, anche nei processi di coppia e nei DDA, ai doni d’amore, e in una terapia con un paziente credente, aiutarlo a passare da comportamenti disadattivi dovuti a dei DDA “fraintesi” su un Dio stereotipato a favore di una visione e di una vita di fede, corrispondente a quella che Gesù presenta nel Vangelo e di cui Lui stesso è il modello.
In questo modo, anche la spiritualità ritengo che possa essere in qualche modo una dimensione che entra nel rapporto terapeutico, fra un paziente-credente ed un terapeuta che lo può accogliere o perché condivide la sua visione cristiana della vita, o perché almeno ha un’idea di fondo con cui potersi relazionare.
Questa prima premessa teorica vuol essere un appiglio teorico, ma documentato, per fornire degli spunti di riflessione operativa.
Ritengo che il solo fatto di aiutare una persona a mettere ordine nella sua idea del rapporto con Dio, abbia un primo effetto terapeutico e possa aiutare il rapporto terapeuta-paziente ad arrivare a una migliore chiarezza. Possiamo fare questo utilizzando uno strumento grafico che aiuta a focalizzare alcuni punti chiave delle dinamiche interpersonali a cui una persona può arrivare anche con il proprio intuito, ma che – se sono esplicitati e messi “in chiaro” – possono diventare sicuramente uno spazio di riflessione e di maggiore consapevolezza a favore del paziente e aiutarlo a trovare un beneficio maggiore nel percorso di cura.
Emiliano Tognetti
Psicologo, psicoterapeuta, giornalista pubblicista, collaboratore della Fraternità di Misericordia di Corsagna (LU)
[1] Marco Alette. “La psicologia di fronte a religione e spiritualità nella cultura contemporanea” , Convegno della Associazione Italiana di Sociologia. Il sacro nella società contemporanea: prospettive di analisi e questioni di metodo. Università Cattolica del Sacro Cuore, 1-2 dicembre 2006.
[2] Allport, G. W. (1950). The individual and his religion: a psychological interpretation. Macmillan.
[3] https://www.treccani.it/enciclopedia/laico/
[4] Si rimanda alla letteratura del dottor Andrew Newberg, disponibile all’U.R.L.
andrewnewberg.squarespace.com
[5] https://it.aleteia.org/2020/09/08/cosa-accade-al-cervello-quando-preghiamo/?utm_campaign=NL_it&utm_source=daily_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it.
3 Si rimanda alla letteratura della dottoressa Lorna Smith Benjamin, disponibile all’U.R.L. lornasmithbenjamin.com
[7] POPPER K.R., Postscritto alla Logica della scoperta scientifica, Saggiatore, Milano, 1984, Vol. I: Il realismo e lo scopo della scienza.
5 È possibile consultarli all’U.R.L. http://www.vatican.va/archive/catechism_it/p122a3p1_it.htm
[9] http://www.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20131124_evangelii-gaudium.html#I.%E2%80%82Gioia_che_si_rinnova_e_si_comunica
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