“I sistemi motivazionali nel dialogo clinico. Il manuale AIMIT”, a cura di Giovanni Liotti e Fabio Monticelli, 2008. Raffaello Cortina Editore, Euro 24,50.
recensione di Ruggero Piperno
Ancora un bel libro stimolante e interessante sulla prospettiva cognitivo evoluzionista, a cura di Giovanni Liotti e Fabio Monticelli, al quale hanno collaborato molti autori appartenenti al “Gruppo per lo studio delle motivazioni interpersonali in psicoterapia”.
Ogni libro sulla prospettiva cognitivo evoluzionista continua ad esercitare su di me un grande fascino, un po’ come una bella donna che si ama e dalla quale si contraccambiati e che ci si rammarica di aver trovato tardi nella propria vita, ma nonostante ciò si riesce a scoprire sempre qualcosa di nuovo e di bello in lei che prima non era stato notato.
Per condividere con il lettore questo mio piacere provo a fare il punto di quello che ho appreso da questo libro.
Si parte dai sistemi motivazionali. A me sembra una giusta partenza, l’evoluzione storica dell’idea energetico pulsionale di Freud, una partenza credibile, suffragata da molte ricerche che vanno dalla teoria dell’attaccamento, agli studi etologici alle nuove ricerche delle neuroscienze. I “sistemi motivazionali sono descritti come ”: “ disposizioni innate e universali, i cui antecedenti sono già presenti nel¬le specie animali evoluzionisticamente più vicine a Homo sapiens. Si tratta di tendenze, per quanto potenti e spesso ineludibili, e non di schemi di azione fissi e rigidi come quelli che tradizionalmente vengo¬no associati al concetto di istinto. In altre parole, le propensioni ad agi¬re verso specifici obiettivi, selezionate dall’evoluzione, non sono concepite come scariche pulsionali inevitabili o come schemi meccanici di azione, ma come inviti, anche se pressanti, a perseguire particolari for¬me di interazione fra organismo e ambiente, incluso l’ambiente sociale.” P. 3
I sistemi motivazionali seguono l’evoluzione filogenetica del cervello che, secondo la terminologia di Mc Lean, comprende, in ordine di gerarchia evolutiva, da quello più antico a quello più recente, il cervello “ rettiliano”, il cervello limbico e quello neocorticale. I sistemi più antichi, come quelli che regolano l’omeostasi corporea, la difesa dai pericoli ambientali, la tendenza esplorativa, la difesa territoriale, sono presenti in tutti i vertebrati. I sistemi motivazionali limbici sottintendono alcune funzioni fondamentali, richiesta di cura e vicinanza protettiva (attaccamento), l’offerta di cura (accudimento), la competizione per il rango sociale (dominanza subordinazione) e formazione della coppia sessuale. Questi sistemi motivazionali sono presenti in tutti i mammiferi e si manifestano con comportamenti omologhi (ad es gridare del pulcino/piangere del bambino o leccare dei quadrupedi/accarezzare dell’uomo). Nei mammiferi superiori si è sviluppato un altro sistema motivazionale, quello cooperativo, particolarmente sviluppato negli esseri umani, al quale, secondo Liotti, possono essere riferiti due sottosistemi, il gioco sociale e l’affiliazione al gruppo.
Un altro sistema motivazionale un po’ più complesso è quello che è stato chiamato “intersoggettività” che oltre ad essere un vocabolo super utilizzato da molti modelli, può essere descritto come un SMI che non è attivato da uno stimolo e inibito dal raggiungimento dello scopo, modalità che gli darebbe un andamento “fasico”, ma è “tonico” , cioè più o meno sempre presente in uno stato di coscienza vigile (e forse nel sonno sotto forma di sogno?).
Quella che chiamiamo “intersoggettività” si sviluppa progressivamente attraverso una serie di modi – di essere – con – l’altro, in un lungo periodo che va da 9 mesi a circa 4 anni. In questo lungo tempo il bambino si costruisce quella che è stata definita una teoria della mente (TDM), la capacità di predire, spiegare o interpretare le azioni proprie ed altrui in termini di credenze, intenzioni e desideri. Si entra così progressivamente in quanto di più intimo e segreto esiste nell’esistenza umana, il “senso” di Sé e dell’altro, intenzioni, fantasie, pensieri, vissuti, inferenze, interpretazioni.
L’insieme di queste esperienze, sia nel male che nel bene, probabilmente in funzione della loro intensità, o della loro ripetitività. possono lasciare delle tracce mnemoniche che implicano delle aspettative più o meno stabili (MOI Modelli Operativi Interni) che possono guidare i futuri comportamenti, un po’ come le antiche carrozze a cavallo, è più facile che le ruote scorrano dentro i solchi della pista, ma con un certo sforzo, molto o poco a seconda delle circostanze, si può modificare la vecchia rotta e aprire nuove strade.
Per la prima volta tutta una serie di studi, provenienti da campi diversi, e fino a poco tempo fa assolutamente isolati, l’osservazione del bambino, gli studi delle neuroscieze sulle emozioni e coscienza o sui neuroni specchio , l’etologia, gli studi sull’evoluzione umana, hanno cominciato a convergere e a permettere ipotesi integrate. I nomi di Lichtemberg, Aron, Stern, Damasio, Edelman, Gallese. Liotti, apparteneti a campi di ricerca molto diversi fra loro, per citarne solo una piccolissima parte, si ritrovano spesso nelle bibliografie di uno stesso articolo.
La tendenza a condividere l’esperienza soggettiva per arrivare alla co-costruzione di strutture di significato sembra sia una caratteristica innata dell’essere umano. La TDM è il precursore di quella che è stata definita “meta cognizione” o “mentalizzazione” o “funzione riflessiva”, ovvero: “l’insieme delle co¬noscenze (contenuti) e delle abilità (processi di controllo) che, svilup¬pandosi progressivamente nel corso dell’infanzia, permettono a ogni essere umano di comprendere i fenomeni mentali, propri e dell’altro, e di riflettere su di essi con finalità adattative”. P66
Filogeneticamente la funzione riflessiva sembra il risultato dello sviluppo della neocorteccia, antropologicamente lo strumento che ci rende più sofisticati, meno soggetti agli aspetti meccanici degli istinti, e quindi in definitiva più liberi.
E qui si chiude una sorta di ipotetico circolo che in questa breve traccia ricollega lo sviluppo del bambino al cambiamento terapeutico, nel senso che, non a caso, la “funzione riflessiva” appare l’obiettivo elettivo sia per quanto riguarda lo sviluppo psicofisionolgico del bambino che nel processo terapeutico di un adulto in difficoltà psicologica o esistenziale. “Considerando la conquista di un buon funzionamento meta cognitivo uno dei principali obiettivi da perseguire in qualsiasi processo terapeutico la relazione del terapeuta con il proprio paziente dovrebbe tendere il più possibile alla libertà comunicativa, alla pariteticità e alla sicurezza tipiche dell’attivazione del sistema cooperativo in entrambi i componenti della diade impegnata nel dialogo clinico” pag 69
Ma la funzione riflessiva non si incrementa come la cultura di chi legge un libro o un giornale, o attraverso una lezione frontale all’università, né attraverso un conferenza, per quanto illustre possa essere l’oratore, non può essere il frutto di un atto esclusivamente pedagogico. Nasce piuttosto dall’esperienza relazionale che stiamo facendo con una persona significativa che ci sta di fronte, dalla qualità percepita, dal vissuto dell’essere -con – l’altro, in uno specifico rapporto, in uno specifico momento.
Sicuramente i vissuti e le memorie di essere – con – l’altro attivano stati emozionali che sono legati all’estrinsecarsi, anche simbolico e metaforico, degli antichi MOI frutto a loro volta del gioco complesso fra sistemi emozionali.
Risulta quindi consequenziale il tentativo di comprendere quali modi di essere con l’altro, attivati dal terapeuta, possono favorire, in un dialogo clinico, lo sviluppo di un dialogo interno del paziente e del terapeuta, che mi sembrano due funzioni assolutamente collegate fra loro. E questa è in definitiva l’ipotesi di ricerca di questo libro “la comparsa della motivazione collaborativa in un contesto intersoggettivo paritetico corrisponde un funzionamento meta cognitivo più flessibile articolato rispetto a quello permesso da altri assetti motivazionali interpersonali” p.70
Il libro è suddiviso in due parti. La prima ripropone le basi su cui si articola la prospettiva cognitivo evoluzionista, (vedi anche “La dimensione interpersonale della coscienza” di Gianni Liotti, Edizione 2005, Carocci Editore, che ho recensito su questa stessa rivista).
Riassumo i titoli dei capitoli che ci aiutano a seguire la traccia del libro:
Cap. 1: “Motivi e significati dell’agire interpersonale. Rapporti fra motivazione, emozione e pensiero nella prospettiva evoluzionista”;
Cap. 2: “Intersoggettività e sistemi motivazionali. Una prospettiva evoluzionista e neojacksoniana”;
Cap. 3: “Dinamiche motivazionali e psicopatologia. Dall’attaccamento disorganizzato alle strategie controllanti”.
Dal Cap. 4: “Le forme della mentalizzazione nei contesti interpersonali. Uno studio sui rapporti fra sistemi motivazionali e funzioni meta cognitive”, si entra nella parte più sperimentale che, attraverso due strumenti, la SVaM (Scala per la valutazione, attraverso le analisi di trascritti di sedute di psicoterapia, delle abilità meta cognitive dei pazienti, eventuali funzioni deficitarie e permette di monitorare il funzionamento della funzione riflessiva, nel corso della psicoterapia – rapidamente descritta nel capitolo quarto) e il manuale AIMIT (Analisi degli Indicatori delle motivazioni interpersonali nei trascritti), cerca di valutare le modalità del dialogo clinico più efficaci per sviluppare una funzione riflessiva.
Seguono il Cap. 5: “Effetti sulla meta cognizione della costruzione di un dialogo collaborativo. Analisi di una seduta di psicoterapia”;
Il Cap. 6: “Analisi dei momenti problematici in psicoterapia. Il contributo dell’AIMIT” e infine il Cap. 8:” L’AIMIT e la formazione dello psicoterapeuta”.
La descrizione del manuale AIMIT occupa tutta la seconda parte del libro da p. 155 a p. 228.
Il libro, come dicono anche gli autori, non pone come obiettivo principale di divulgare il manuale AIMIT ma di riportare una ricerca che lo utilizza.
Mi attrae, in questo libro, la coerenza della dimensione di ricerca in una scienza come la psicoterapia scarsamente afferrabile.
Sono convinto che la clinica psicoterapica non è mai “applicazione” ma è sempre “ricerca”, dal momento che deve continuamente riflettere su se stessa e questo può avvenire contestualmente al suo esplicarsi, o successivamente. Ma c’è una ricerca che riguarda un atteggiamento continuo di autosservazione, e una ricerca, che definirei più formale, come è appunto la ricerca proposta da questo libro. Una ricerca formale ha un compito ingrato, di dimostrare, per quanto possibile, aspetti che potrebbero essere facilmente intuitivi, ma che se rimangono intuitivi posso cadere nella trappola dell’autoreferenzialità, a volte bisogna fare una grande e meritoria fatica per cercare di dimostrare cose che sono in realtà abbastanza ovvie nel senso comune.
Cerco di spiegarmi meglio. Mi è sempre stato intuitivamente chiaro che la relazione terapeutica attraversa fasi in cui il terapeuta svolge una funzione genitoriale molto sfaccettata e complessa, fino in alcune difficili situazioni, doversi prendere una cura così assoluta dell’altro, da sostituirsi alla sua volontà. Mi è chiara, e credo che il concetto di co-costruzionismo lo abbia ribadito molte volte, la necessità di raggiungere una dimensione cooperativa, tutte le volte che è possibile. Mi è chiaro che questo processo non è ne uniforme né progressivo, ma frastagliato, potendo, i vari stati mentali subire intersecazioni, arresti e strani sviluppi. Dopo Bowlby, con lo sviluppo delle teorie dell’attaccamento, non ci vuole molto ad associare le vicissitudini delle modalità relazionali in terapia, ai sistemi motivazionali.
Ma la lettura di questo libro mi ha permesso una maggiore formalizzazione del mio pensiero, forse un nuovo MOI che collega una cosa che chiamo “sistema motivazionale paritetico” ad una cosa che chiamo “funzione riflessiva” Questa acquisizione suscita sul piano emozionale affetti di soddisfazione, piacere, e gratitudine per gli autori e i curatori e su un piano più razionale la considerazione che è un buon libro.
Vorrei ora portare, un piccolo brano riportato nel libro (brano 6 e 7 a pag. 90) che nella sua brevità è quasi geniale. La paziente seguendo un discorso precedente dice:
“E io che devo fare?”
E lo psicoterapeuta risponde
“Già, noi cosa dobbiamo fare?
Il dialogo continua nel seguente modo
Dopo poco segue il brano 7
Brano 7
T: Dov’è il punto in cui lei sente che non ce la fa in questo modulo, in que¬ste schede?
P: Io so solo che qualche emozione è veloce e basta! E in un certo senso èl’unico modo che ho di esperire le emozioni.
T: Me la racconta l’ultima che ha sentito?
P: Mah… ho sentito la paura, ieri, tornavo dal cinema…
T: Se dovessimo prendere una scheda del modulo emotivo…
P:Quale?
T: Vediamo insieme quale. Vuole che proviamo? Se la sente di farlo?
P: OK.
“Le due iniziano successivamente a lavorare fianco a fianco (nel senso letterale del termine), dopo aver deciso insieme di utilizzare la scheda di homework proposta dal terapeuta di gruppo e oggetto della protesta iniziale della paziente. Il manuale ATMIT permette di codificare questo scambio come motivato, in entrambe le partecipanti, dal sistema coo¬perativo.”
Credo che molti psicoterapeuti di varie scuole avrebbero potuto dare una restituzione del genere, personalmente un intervento di questo tipo appartiene alla mia cultura psicoterapica, quindi avrei benissimo potuto farlo e se poi me ne fosse stata richiesta ragione (dovremmo sempre chiederci ed accettare che ci venga chiesta ragione di qualsiasi cosa facciamo in terapia) avrei potuto commentarlo con delle ipotesi di vario tipo, fra queste oggi le ipotesi suggerite dalla prospettiva proposta da Liotti mi sembrano particolarmente suggestive in quanto rigorose e convincenti.
Vorrei provare adesso a suggerire una lettura sociale più ampia che questo libro mi stimola. In una società, sempre più in difficoltà che Bauman definisce “liquida” nel senso che la rapidità dei suoi cambiamenti non permette uno sviluppo identitario e che Marc Augè definisce dei “non luoghi” dove gli eccessi di tempo, di spazio e di individualizzazione (mancanza di condivisione dell’attribuzione di senso) creano spazi che non possono restituire a chi li attraversa nulla “ della sua identità, né dei suoi rapporti con gli altri o, più in generale, dei rapporti tra gli uni e gli altri, né … della loro storia comune”, la possibile “salvezza” potrebbe consistere nello sviluppare delle relazioni amicali e una dimensione di gioco paritetico.
Forse il fiorire di Messenger, Facebook, Skype è il tentativo virtuale di questo bisogno che ci lancia un segnale, potente, sulla necessità di relazioni paritetiche che dovremmo sforzarci di far uscire dal virtuale per collocare nel tessuto concreto della vita in carne ed ossa.
Mi fa allora piacere riproporre questo libro ai lettori della rivista di terapia familiare, e quindi interessati alla psicoterapia della famiglia, per l’importanza che quest’ultima attribuisce non soltanto all’individuo ma al contesto familiare e sociale che lo coinvolge. Ritengo che gli psicoterapeuti che si riconoscono in questo modello possano trovare nella prospettiva evoluzionista un pensiero che riesce, cosa abbastanza rara, a coniugare creatività e rigore.
Ruggero Piperno
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