Esposizione prolungata. Una terapia per il PTSD. Un trattamento evidence based per l’elaborazione emotiva delle esperienze traumatiche (recensione di M. De Franceschi)

Foa E.B, Hembree B.O.R., Rothbaum B.O., Rauch S.A.S., Esposizione prolungata. Una terapia per il PTSD. Un trattamento evidence based per l’elaborazione emotiva delle esperienze traumatiche. Una guida per il terapeuta, Apertamenteweb, pp. 162,  Euro 28.00

Il testo di Foa e coll. illustra, in modo completo e approfondito, il protocollo per la terapia dell’esposizione prolungata per i pazienti che soffrono di PTSD. Il manuale in questione si aggiunge alla lista degli strumenti pratici, concreti da utilizzare in interventi previsti come normalmente rapidi in quanto la manualizzazione contempla circa 15 sedute precisamente scansionate e descritte all’interno del volume. Questa modalità di terapia, indicata come particolarmente efficace dalle linee guida dell’APA in alcuni casi di PTSD, non è però molto conosciuta e frequentata dai terapeuti italiani, nonostante la mole di prove di efficacia e di ricerche a suo sostegno.

Il volume si divide in tre parti. La prima descrive ricerche e concetti base legati alle conseguenze di esperienze traumatiche ‘semplici’ che, lo ricordiamo, non necessariamente significa superficiali o di poco conto. Si intende, infatti, con questo termine esperienze che travalicano la possibilità di adattamento della persona e che hanno rappresentato esperienze di rischio di morte o di danno grave che ci hanno visto come protagonisti o come spettatori (per fare degli esempi cito episodi aggressioni fisiche, stupri, incidenti gravi). Gli autori citano esplicitamente anche la possibilità di avviare il programma anche in quei casi che sono ‘sottosoglia’ in quanto mancanti di uno o più dei criteri necessari secondo DSM per la diagnosi ufficiale. Non citano, invece, quei casi in cui una diversa sintomatologia (ansiosa e/o depressiva)  sembra essere originata come reazione ad episodi che potremmo chiamare effettivamente traumatici; in queste situazioni sarebbe utile disporre di ricerche, ma anche di esperienze cliniche dirette di efficacia del protocollo in questione. Un discorso diverso deve essere fatto per quanto riguarda i traumi complessi. Se è vero che dalle prime pagine il manuale si rivolge esplicitamente ai traumi ‘puntuali’, a p.83 troviamo che il protocollo potrebbe essere anche utilizzato su quelle situazioni originatesi da traumi ‘prolungati’ (“periodi di tortura, diversi giorni di prigionia”) o traumi ‘multipli’ (“aggressioni ripetute, abusi sessuali infantili ricorrenti, molteplici episodi di combattimento”). In questo caso gli autori sottolineano l’importanza dello scegliere il ricordo su cui concentrarsi all’inizio, scegliendo il più disturbante, dichiarando che, “nella maggior parte dei casi il successo dell’elaborazione della memoria più disturbante si generalizza a ricordi meno angoscianti”.

Sempre in questa prima parte si espone anche la teoria del mantenimento dei sintomi del PTSD che vede da una parte l’evitamento nelle sue due forme (di luoghi, situazioni, persone e di ricordi e pensieri) e dall’altra l’origine di credenze inquietanti (patogene, direbbe la Control Mastery Theory) come il vedere il mondo come sempre pericoloso, vedere sé come incompetente o colpevole tra i motivi della permanenza del disturbo stesso (p.43). E’ inevitabile, date le premesse,  considerare l’esposizione come modo per interrompere la spirale di automantenimento della sindrome. E infatti il protocollo descrive passo passo le modalità di esposizione in immaginazione e in vivo: ciò consiste l’ossatura di questo tipo di terapia. Prima, però di accompagnare il paziente verso l’inizio della terapia, e ogni volta che il paziente sembra retrocedere all’impegno preso, il terapeuta descrive in modo semplice, ma approfondito il ‘razionale’ della terapia e discute gli immancabili tentativi del paziente di ‘evitarne’ l’inizio. Le paure che attraversano i terapeuti all’oscuro dell’efficacia di questo metodo sono le stesse che il paziente esprime alla presentazione delle procedure e richieste necessarie alla cura. Il terapeuta, infatti, trova nel manuale esempi di modalità di risposta alle più comuni e legittime paure, tipo: “perderò il controllo, i sintomi si aggraveranno…”.

In effetti durante la fase di psicoeducazione si avvisano i pazienti che potrebbero effettivamente sperimentare un aggravarsi temporaneo dei sintomi e, a questo proposito, gli autori indicano delle possibili similitudini/metafore da utilizzare. Spiegano, infatti, che, come all’uscita di una seduta di fisioterapia o di chemioterapia il paziente può ben sentirsi maggiormente dolorante, ciò non toglie che sul lungo periodo le prove di efficacia siano schiaccianti (p.35). Altrettanto illuminante è la metafora della mancata digestione di un cibo per indicare il perché alcuni ricordi si ripresentano altrettanto disturbanti: una mancata elaborazione è responsabile dello stato di disagio. La terapia riprende cibo/episodi in modo tale da permetterne l’assorbimento (p.85). In definitiva, sarebbe l’abituazione a ridurre l’attivazione emotiva, attivazione che però deve essere esperita in situazione di sicurezza. Questo aspetto fondamentale, il trasformare il ricordo da ritraumattizante a episodio che pur appartenente alla nostra storia non influenza più la nostra vita, è possibile solo a condizione che il paziente accetti di uscire dalla sua ‘comfort zone’ senza uscire dalla ‘safety zone’ (p.35), concetto che richiama la ‘zona di sviluppo prossimale’ di vygotskijana memoria. Ciò è possibile, secondo chi scrive, solo considerando la relazione terapeutica, l’alleanza verso il fine condiviso della riuscita della terapia, come aspetto che non solo permette il buon utilizzo della tecnica (questa o di altre terapie), ma anche come elemento terepeutico a se stante. Del resto anche gli autori più volte sottolineano l’importanza del comunicare esperienze drammatiche davanti a un altro essere umano sensibile, disponibile e non giudicante: “c’è qualcosa di intrinsecamente curativo e liberatorio nel raccontare ad alta voce i momenti peggiori e più vergognosi della propria vita” (p.38), “l’esperienza di condividere il dolore e l’orrore di una memoria traumatica con una persona compassionevole, comprensiva e non giudicante è un’opportunità di guarigione potente che può, da sola, iniziare a ridurre la paura, la vergogna, il senso di colpa e i sintomi del PTSD”. Gli autori, ovviamente, non potevano descrivere in questo manuale le modalità di emersione di tale relazione terapeutica e rimandano ad altri testi e alla formazione comune dei terapeuti la gestione di tale aspetto fondamentale. Anche la legittima preoccupazione dei terapeuti legata ai possibili scompensi dissociativi e psicotici durante la rievocazione è stata trattata nella prima parte e gli autori hanno evidenziato a questo proposito come i soli criteri di esclusione da questa terapia riguardino le persone che presentano comportamenti autolesivi, suicidari o scompensi psicotici in atto. Indicano anche tecniche, ormai conosciute da chi si occupa di psicotraumatologia, come il grounding o la narrazione al passato invece che al presente come utili per mantenere il paziente nella ‘finestra di tolleranza’.

Altro aspetto citato, ma non direttamente affrontato perché rimandato alla formazione ‘base’ dei terapeuti in questo ambito, sono le due difficoltà che il terapeuta può incontrare durante il trattamento: da una parte il sentirsi lui stesso sopraffatto dai racconti a cui è esposto (ricordiamo la possibilità di una vittimizzazione terziaria che ci porterebbe a colludere con l’evitamento) e dall’altra un atteggiamento che, con il bel racconto di Mishima ‘Musica’, potremmo definire lo svilupparsi di “sentimenti impuri come la fredda oggettività, o quella curiosità accademica un po’ utilitaristica” alle quali io aggiungerei una certa possibile tendenza voyeuristica. Tutti elementi che andrebbero a interferire con la cooperazione necessaria e condivisa al buon fine del trattamento. Forse, nel momento in cui ci sorprendiamo a sperimentare dentro di noi tali tendenze, l’unico elemento davvero di aiuto consiste nel ricorrere a un supervisore fidato e di lunga esperienza. Mi sono dilungato nella descrizione della prima parte perché particolarmente interessante e di fondamentale importanza per far fronte a eventuali resistenze del paziente (e del terapeuta). Della seconda parte sottolineo soltanto che l’esposizione in vivo viene eseguita tra una seduta e l’altra dal paziente e successivamente discussa insieme (pp. 50 e ss.) e quella in immaginazione all’interno della seduta, che viene audioregistrata con l’indicazione di ascoltarla una volta al giorno fino al successivo incontro. Sempre nella seconda parte troviamo il ritmo di ogni seduta, dalla prima all’ultima con la relativa descrizione di tempi, obiettivi, modalità, difficoltà tipiche. Nella terza parte, l’appendice, troviamo strumenti utili per la terapia stessa come l’intervista per il trauma, schemi e checklist di cui si parla nel testo. Non troviamo, invece, il ‘quaderno del paziente’ che rappresenta il materiale che il paziente dovrà compilare, soprattutto a casa, come compiti da eseguire tra una seduta e l’altra, ma tale strumento è scaricabile gratuitamente in inglese dal sito indicato nel testo.

In definitiva la terapia dell’esposizione prolungata rappresenta un ulteriore strumento che la ricerca scientifica ha messo a disposizione e che dovrebbe far parte della ‘cassetta degli attrezzi’ di ogni terapeuta, al di là della scuola di appartenenza.

10/01/2025

Massimo De Franceschi, psicologo psicoterapeuta

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